Si sbaglierebbe a voler vedere Dolor y Gloria solo e semplicemente come un film confessione. Certo, l’ultima pellicola di Pedro Almodóvar ha tutte le caratteristiche di un personale 8 e ½, ma al centro del discorso, al di là della più volte ribadita idea che il cinema possa salvare una vita, sta tutta una riflessione sull’arte come linguaggio per dire e per dirsi. Un linguaggio che ha sempre bisogno di un destinatario, di un qualcuno di concreto cui indirizzarsi, di uno sguardo ascoltante che non può essere la mera astrazione di un pubblico indifferenziato (“Chissà perché i miei film piacciono tanto agli islandesi?”, si chiede con sincero sconcerto Salvador Mallo, l’alter ego sin nell’anagramma del maestro spagnolo), ma deve, invece, essere una persona concreta, in carne e ossa, che sappia e capisca il senso più recondito delle parole espresse nel dolore prima ancora che nella vana ricerca della gloria.
Che poi quest’intima confessione sappia farsi alta espressione di valori universali e condivisi è secondario al bisogno impellente di chi, per conoscersi e riconoscersi, ha bisogno dell’altro e della certezza della condivisione.
Scrivere mossi dal bisogno di raccontare il mondo è certo lodevole, ma lega le mani chiunque cerchi rifugio nell’oggettività impossibile perché per cantare l’universo bisogna prima partire da quella goccia d’acqua che è la lacrima che piangiamo sin dal nostro primo battito di ciglia.
Sicché l’autobiografia respira forte tra le pieghe del film. Respira nei dettagli vaporosi dell’infanzia che è tutta sole e lenzuola stese tra le canne, in riva al fiume. Respira nei riferimenti ai dolori alla schiena (tra gli altri, tanti) che sono gli stessi del regista che questa storia la mette in scena. Respira nel riferimento doloroso alla perdita della madre, nella dolente consapevolezza di non essere riuscito ad essere mai quel figlio che lei desiderava.
Sta in tutto questo il dirsi che diventa dire quando passa al vaglio della considerazione che ogni film girato, compreso proprio questo che stiamo vedendo e che si riannoda su se stesso con intima perfezione, è sempre stato una lettera d’amore a quella madre o a quell’attore, o a quel pomeriggio che per la prima volta ci si scopre d’improvviso diversi da quel che si credeva.
E tutto il film è un incrocio di lettere d’amore che si muovono nel tempo e nello spazio, alla magnifica ricerca di quel cuore che sappia ritrovare il ritmo della magia di quel momento condiviso.
Così una lettera all’amato perduto diventa spettacolo di teatro e, con le ali che sembrano arrivarle da un endecasillabo dello stilnovo, arriva proprio lì dove doveva quando sembrava impossibile.
Ed è una lettera il quadro che si trova, anonimo, in una galleria d’arte, che basta appena girar la tela per riscoprire il tratto insicuro di chi ha appena imparato a scrivere, eppure non può metter freno al montare dei sentimenti.
Una lettera è anche il film nel film in un giro speculare che si fa sublime nella certezza di una classicità non solo raggiunta, ma, infine, padroneggiata malgrado gli incidenti occorsi.
Tutto un profluvio di missive, insomma, che arrivano a destinazione con quel gusto da romanzo che è sempre stato al centro della poetica dell’Almodóvar migliore. Ma ci arrivano a costo del dolore, nella certezza che ogni passo, necessario, tendeva a quell’epilogo che è anche un’apertura.
Così il racconto della crisi artistica, l’incubo della pagina bianca, la paura di fare, che sono gli inciampi da cui tutto parte, si dispiega in un cinema poderoso e forte che mette il vento in poppa a ogni slancio di poesia.
Un film intimo eppure necessario. Con un Antonio Banderas alla sua prova più sfumata e una Penélope Cruz che rende tutto più vero del vero.
Il tutto a dare ai vezzi e ai segni di un cinema sempre riconoscibile quel di più di chi parlando, rivela una consuetudine dolce con le contraddizioni dell’anima umano e per questo conosce la strada mozartiana del perdono. O, se non altro, ne intravede di lontano la giusta direzione. E scusate se è poco!