È stata donna prima di essere regista e della donna ha sempre cantato con intima leggerezza anche le più segrete contraddizioni, senza cadere nell’autobiografismo fine a sé stesso che rende tutto più scontato.
Ha scavato nell’inestricabile groviglio di fragilità e forza delle eroine che ha messo in scena senza aver pretesa di cogliere un nocciolo più vero o più duro. Anzi, con gesto registico a tratti sublime, ha fatto della semplicità del dire una visione a volo d’aquila sull’animo non solo femminile.
Ha raccontato l’incredibile capacità d’amare caparbia e assoluta, necessaria come il respiro e ugualmente famelica. Ha detto del dolore di chi si aggira sperduta nello scenario del dubbio, ma che sa fare di ogni cosa incontrata commossa epifania del vivere. Non ha taciuto delle guerre ingiuste, come il Vietnam, che macchiavano di sangue la cattiva coscienza dell’americano imperialista. Ma è stata anche dentro le incertezze della coppia, nella consapevole ricerca di una felicità che fugge sempre lontano anche se sembra così terribilmente a portata di mano.
Negli anni in cui Antoine Doinel correva contro il mare in cerca di un impossibile futuro, anche lei cominciava a sognare in piccolo l’ariosità di un cinema che, sull’onda del neorealismo e degli articoli di Bazin, riscopriva gli angoli di strada, i lunghi boulevard e i passanti frettolosi, ciascuno con il suo carico di storie possibili.
Non ha mai amato l’etichetta della Nouvelle Vague, ma stava in mezzo alle due rive della Senna, tra Resnais (che le montò il suo primo corto già nel 1954) e Godard, tra Chabrol e Truffaut.
In un ambito assolutamente maschile, quando le registe donne erano un’eccezione da guardarsi con sospetto e un pizzico di sgomento, lei si metteva dietro la macchina da presa con la sicurezza di chi sa che non potrebbe fare altro. Non era come una Leni Riefenstahl che imponeva il suo ruolo con la forza teutonica della valchiria che si pretende quasi più maschia degli stessi uomini nella consapevolezza di dover battere l’altro sesso con la forza. Piuttosto è stata un folletto, uno di quelli che avrebbe potuto partorire la fantasia aracnide di un Mendelssohn in pieno sogno di una notte di mezza estate. E con la semplice forza dello sguardo è stata capace di tirar fuori un novero di titoli in fondo piccolo, ma, signori, di che importanza!
Agnès Varda si è spenta oggi, alla bella età di novanta anni, ma con ancora tanta forza nelle gambe. Quella forza necessaria per andare in giro per il mondo a esercitare gli occhi nel mestiere più nobile: osservare. Geniale, anarchica senza bisogno di proclami, profonda senza darne il peso è stata una delle registe più strane e belle che la settima arte ci abbia regalato. Innovativa senza cercare novità, femminista senza bisogno di manifesti, Varda è stata tante cose nel corso della sua vita e della sua carriera, tranne una: banale. Sin dalle sue origini, belghe in verità, ma da padre greco e madre francese, ha avuto un modo tutto suo di pensare i confini e le distanze.
Sarà per questo che è stata sempre libera e quella libertà l’ha portata nel suo modo di girare che è unico, irripetibile e, tante volte, anche divertito e irriverente.
Ci ha lasciato film come Cléo de 5 à 7 (1962), Le bonheur (1965), Sans toit ni loi (1985) e Garage Demy del 1991. Ma anche documentari come Loin du Vietnam (1967), Black Panthers (1968) e l’ultimo Visages villages con cui era diventata la persona più anziana a ricevere la candidatura per una sezione competitiva dell’Oscar. Lo stesso anno che le veniva insignito un Oscar alla carriera.
Ci lascia, però, con film che ci illuminano il cammino, piccoli raggi di speranza e moniti a guardare meglio perché, anche nell’oggi più omologato c’è spazio ancora per la scoperta delle piccole storie e di quell’umanità minuta che è sempre a un soffio dallo spegnersi nel chiacchiericcio social della nuova propaganda.