Si potrebbe pensare che Coco sia un film sul potere salvifico del ricordo, ma, a uno sguardo appena un poco più attento, ci si accorge che le cose non sono così semplici e che le intenzioni sono ben altrimenti alte.
Coco, infatti, non canta in minore la dimensione del vissuto individuale di chi si accinge a tener desto nella propria coscienza il pensiero per il defunto amato né, cosa ancor più significativa, punta il dito, come la maggior parte dei prodotti d’animazione, sulla propensione al singolare dell’american way of life. Piuttosto mette al centro del suo discorso il destino esemplare di un individuo che si invera di Senso solo nel momento in cui egli diventa capace di superare la sua aspirazione a monade isolata e di sciogliersi nel riconoscimento del suo essere appena un Primus inter pares.
Ma procediamo con ordine.
La storia del film è presto detta: Miguel è un ragazzino con un sogno, come in fondo ce ne sono tanti nel cinema americano: vuole diventare un musicista. Gli basterebbe diventare un mariachi come ce ne sono tanti perché a lui suonare e cantare piace davvero tanto e, anche se il suo modello di riferimento è un divo nato come lui nel Messico più provinciale, non ha ancora veramente i sogni di gloria dell’era dei Talent show. Il problema, per Miguel, è che la musica è stata bandita dalla sua famiglia sin da quando il bisnonno lasciò moglie e figlia, la Coco del titolo, per seguire sogni di gloria.
Il ragazzo non può suonare, quindi, a meno di non scegliere per sé lo stesso destino del suo avo: l’allontanamento dal nucleo familiare e conseguentemente l’oblio. Una scelta non facile per un bambino di pochi anni che della vita ha capito una cosa sola: quanto è bello tenere tra le mani una chitarra e dirsi con questa al mondo.
Il senso del percorso dell’eroe si palesa nel momento in cui, a seguito di un ennesimo confronto tra il suo desiderio e l’ostinazione della famiglia, Miguel decide di esibirsi comunque in una gara canora e per farlo ruba dalla tomba del suo idolo la chitarra. Maledetto per aver sottratto un bene ai morti proprio il giorno in cui i vivi dovrebbero solo donare il loro ricordo ai defunti, il nostro affronta un viaggio nell’oltretomba per cercare la benedizione di un familiare che annulli il maleficio. Il problema è che i soli familiari che incontra sono gli stessi che avevano bandito la musica dalla casa e tutti pongono come condizione alla benedizione la sua rinuncia alla musica. Diventa così impellente trovare il proprio bisnonno che il piccolo Miguel pensa essere proprio il divo dei suoi sogni infantili.
Se la trama riecheggia temi dell’intrigante Il libro della vita prodotto da Del Toro, non lasciatevi ingannare. Il film è piuttosto una rilettura in filigrana del Mago di Oz con il suo viaggio verso una città di smeraldo pieno di strade di petali d’oro al posto dei mattoncini che culmina con la scoperta che il mago è un ciarlatano e che nessun posto è bello come la propria casa. Al di là dei riferimenti e degli omaggi più o meno scoperti, comunque, è nei sottotesti che si scopre la grandezza di questo superbo film.
In prima istanza, sondando il film secondo le direttive di un’analisi attanziale, il mandante del percorso eroico risulta dunque essere il desiderio egocentrato di far musica che il piccolo esperisce. Un desiderio che passa attraverso un ricongiungimento mitico con le origini stesse della leggenda familiare.
Non ci vuole molto, però, a rendersi conto, di come il motore primo dell’intreccio sia anche, e qui sta il primo paradosso della costruzione hollywoodiana del film, il più fiero degli oppositori all’ideale conseguimento dell’happy end. Perseguire il proprio sogno individuale coincide, infatti, per Miguel con la rinuncia alla sicurezza del proprio vissuto familiare. Fama e successo, ci ripete a ogni momento Coco, sono il frutto di un patto faustiano che si traduce perennemente in una perdita.
E faustiano è l’aggettivo che meglio incarna il senso del personaggio di Ernesto de la Cruz, il divo osannato dalle masse e amato dallo stesso Miguel, che, man mano che il racconto avanza, rivela aspetti sempre più saturnini e conturbanti nel suo circondarsi di simulacri di una fama di cui non possiamo non saggiare l’intrinseca inconsistenza.
De la Cruz, anzi, rappresenta, nel suo essere anche attore, l’idea di un cinema (e in generale della cultura di massa) come fabbrica di miti fatui, di immagini sempre più private di un fattivo rapporto con il reale. Non più finestra sul mondo, quindi, ma magnificazione egoica di un ricordo che si nutre solo di se stesso e si perpetua malevolo e impermeabile a ogni bisogno di verità e autenticità.
Raramente un film – d’animazione per di più – aveva lavorato con tanta solerzia su un discorso così suicida e iconoclasta.
In questo modo il viaggio agli inferi di Miguel (accompagnato dal suo fido cane, Dante: quando gli americani omaggiano meglio di noi le più alte vette della poesia mondiale) si configura come viaggio dell’eroe oltre l’errore nella ridefinizione di una scala di valori che superi il dettato egoistico dell’inizio per sciogliersi in una più matura comprensione di se stessi
Come nella più realistica delle favole, quindi, il senso della vita lo si scopre nel momento in cui la rinuncia di sé diventa scoperta di un altro sé più profondo e urgente.
Soprattutto esso brilla nella riscoperta dello stare con gli altri contro il semplice usare gli altri per fabbricarsi un’immagine nella memoria collettiva.
Perché, e sta qui la vera grandezza di Coco, non è il ricordo individuale la vera salvezza. Non è nel chiudersi a riccio intorno al pensiero del proprio caro perduto che si definisce un rapporto fattivo con le proprie radici e il proprio senso di appartenenza.
Il ricordo individuale, infatti, è destinato a sparire come la memoria fugace e precaria di Coco che gradualmente dissolve nel nulla di fatto dell’alzheimer. Il ricordo, quindi, assume valore solo nella sua condivisione, nel suo diventare mattone per una memoria collettiva e condivisa.
Tutta la poesia di Coco sta quindi in questo processo di sublimazione del ricordo che tutto poggia nella sua magica trasmissibilità. È questa, direbbe Foscolo, l’unica cosa in grado di sfidare di mille secoli il silenzio.
In questo ritrovato senso di una collettività operosa, contro il delirio solipsista imposto dalla società dei consumi, riposa quindi la vera anima politica di un film che non è anti Trump solo perché costruisce ponti che dal Messico arrivano alle stelle, ma soprattutto perché sostituisce all’idea dell’one selfmade man solo al comando l’unica salvezza di riconoscerci esseri sociali.
Da lì e solo da lì si può cominciare a costruire il senso del futuro.