Un futuro non molto lontano. Un gruppo di astronauti è stato inviato su Marte. La missione: scoprire se ci sono forme di vita annidate tra i canali del vicino pianeta rosso ed investigare sui motivi della scomparsa delle precedenti missioni inviate in loco anni prima.
L’astronave, dopo un lungo e difficile viaggio, atterra sul brullo suolo marziano in un alzarsi di sabbia e polvere. Gli uomini di bordo scendono a terra per ritrovarsi nell’assolato paesaggio dell’Illinois, tra l’odore di pannocchie cotte sulla brace e quello di torta di mele e cannella. Tutto intorno un affollarsi di persone. Amici e parenti. Qualcuno morto da tempo.
Così Bradbury immaginò qualche anno fa l’esito di una spedizione su Marte.
L’alieno, figura sfuggente nel corso di tutto il romanzo (Cronache marziane) è concepito come un’entità impalpabile, sfuggente, imparentata al Sogno e alle figure allusive dell’Inconscio umano. L’incontro con l’altro, con l’Alterità, si risolve in un incontro con se stessi, con le proprie paure, le proprie angosce, l’insondabile profondità del proprio essere. Un incontro doloroso con la propria essenza più intima; il riflesso della propria immagine in uno specchio rovesciato oscuro, nero come il monolite di 2001: odissea nello spazio di Kubrick.
Quest’oggetto, misteriosa figura ricorrente nello spazio di tutta la pellicola, è l’unica prova tangibile dell’esistenza di un’altra specie intelligente nell’universo. Una sorta di specchio la cui capacità di riflettere all’infinito l’arcano mistero dell’esistenza è talmente grande da risolversi in un grande, insondabile nero, vuoto. La negazione stessa dell’immagine che è, per paradosso, l’insieme di tutte le immagini visibili e non visibili. Uno specchio, insomma, che non riflette alcuna immagine per la sola e validissima ragione che le riflette tutte.
Identica metafora, ma riportata in un piano più banale e meno filosofico è alla base di Contact di Robert Zemeckis. In questo film Jodie Foster si trova, infatti, catapultata in una dimensione che è l’esatta espressione dei suoi desideri inconsci. Una sorta di riflesso su di una bolla di sapone la cui bellezza non è contraddetta della sua sostanziale falsità.
Anche Sfera dal romanzo di Crichton per la regia di Barry Sonnenfield, rilancia l’incontro con il manufatto alieno nella logica di un processo conoscitivo che è prima di tutto di autocoscienza. Dietro l’ipotetica domanda: “Chi sono loro?” che scatena il racconto e giustifica l’avventura, si nasconde sempre la ben più problematica domanda: “Chi siamo noi? Qual è il nostro scopo?”.
Domanda inquietante ed impossibile che si fa raggelante e tragica nel bellissimo finale di La Cosa di Carpenter. Film in cui l’alieno può prendere le fattezze di qualsiasi essere vivente, uomo compreso, ponendo costantemente il problema dell’identità di ogni singolo personaggio, in una totale, sconcertante incertezza. Come pure nei vari Invasione degli ultracorpi.
Tutti film che rilanciano all’infinito il dubbio assillante che, forse, l’Altro da Noi è, forse, meno spaventoso, meno inquietante, meno orrido di noi stessi.