Il passo che separa la Santità dalla Follia è breve come quello che avvicina la fanciullezza alla vecchiaia; un sottile filo di seta tra un nulla ed un altro nulla; una vertigine posta su di un mondo fatto di apparenze, di ipocrite mezze misure, di facili soluzioni di comodo.
Di fronte ad una realtà contraddittoria, chiusa tra egoismi grandi e piccoli, il folle è Santo ed il Santo folle.
Il loro sguardo è una prospettiva altra sulle miserie del mondo, un punto di vista che capovolge bruscamente i valori precostituiti, aprendo una voragine profonda sotto i piedi del buon senso (che è, di fatto, il senso comune).
L’atto del santo supera d’un sol colpo ogni forma di odio e di egoismo per proporsi, al mondo, come improvvisa totale sincerità con se stessi e con gli altri; trasformazione dell’intera esistenza del singolo in preghiera (intesa nell’accezione più ampia di anelito al trascendente). Come tale è una rivoluzione della coscienza che si pone nei confronti della realtà nella dimensione dell’exemplum. Una visione, consapevole, che riesce ad essere contemporaneamente dentro e fuori la realtà.
Così è il Francesco di Rossellini: un santo eversivo che guarda il contingente con l’occhio dell’assoluto. Un giullare che trasforma il precetto e la preghiera in gioco, rendendoli misticamente vivi. Un prestigiatore che trasforma la Parola in azione, in parabola esistenziale mentre il senso comune tende a lasciarla inerte, vuota facciata a coprire ipocritamente gli egoismi di sempre.
Come un bambino che non conosce ancora (wendersianamente) la differenza tra sé e l’altro, il Santo rosselliniano può perseguire il suo progetto di lucida follia. Perché bisogna essere abbastanza pazzi per parlare con lupi e con uccelli e abbastanza bambini per riuscirci.
Il miracolo stesso è, per dirla con Dreyer, un’idea pazza. Come per il suo Johannes (in Ordet) per cui la risurrezione dalla morte di una donna giusta non può non apparire logica e naturale se invocata in un’autentica preghiera. Una preghiera pronunciata dalle labbra di un folle (o presunto tale) con l’aiuto di un bambino. Ma si tratta, in ultimo, di una logica straordinaria che ci è dato di intuire, mai di comprendere fino a fondo; la logica di un folle, che, come tale, non può nè vuole uniformarsi a quella del mondo che lo circonda.
In questo senso non può non tornare alla mente la bellissima parabola di Tarkoski nel suo ultimo sconvolgente film: Sacrificio. Parliamo della storia bellissima dell’uomo che ogni giorno innaffia un bastone piantato nel terreno; un arido pezzo di legno conficcato al suolo. La ripetizione continua di questo gesto assurdo contiene, all’interno della sua stessa piccolezza, un intero cosmo di speranza e di preghiera che va ben oltre un discorso puramente confessionale. Fino a che, come l’albero che, interrogato da San Francesco sull’esistenza di Dio, fiorisce in pieno inverno, anche il pezzo di legno germoglia nell’amore e nel sacrificio.
Perché, come ci insegna Bergman, lo sguardo accecato dal dolore dello scetticismo, là dove c’è il vero Amore, là è anche il vero Miracolo.