L’ibridazione tra linguaggi diversi porta sempre su terreni poco battuti in cui il senso avventuroso dell’esplorazione di scenari vergini sta al passo con la continua tentazione d’altro. Di fronte alla bellezza di un quadro inusuale che colpisce e coinvolge c’è sempre l’impressione, per lo spettatore disorientato, che magari, se al bivio si fosse presa la destra invece che la sinistra, ci sarebbe stato altro da ammirare. Una delle cose che maggiormente colpiscono chi cammina per strade nuove, senza una bussola, fidando solo dell’istinto perché mappe ancora non le hanno disegnate, è il rimpianto per ogni svolta presa, per ogni decisione intrapresa. Mettere insieme danza e teatro non è impresa totalmente nuova. Anche perché la danza, nel suo essere già crocevia tra gesto e musica, è un linguaggio da sempre alla ricerca di commistioni originali. Recentemente, ad esempio, l’abbiamo vista fondersi con la prosa in un intrigante Orfeo Rave, produzione del Teatro della Tosse per la regia di Emanuele Conte e Michela Lucenti. Più spesso l’abbiamo vista flirtare con le nuove frontiere della programmazione digitale: ad esempio in Pixels dei francesi Adrien Mondot e Claire Bardainne, ma la lista potrebbe allungarsi oltre misura. Più rara, invece, la commistione con il teatro di figura, con lo spettacolo per bambini anche se i grandi capolavori del balletto vengono spesso dal mondo delle favole. L’approccio alla composizione di L’alchimista bianco è, però, ben lontano da esperienze tutte di “testa” alla Pulcinella di Stravinski dove fa capolino anche la malia del linguaggio dell’opera. In questo spettacolo, piuttosto, la sperimentazione resta agevolmente incanalata nel terreno empirico della pragmatica dello spettacolo. L’alchimista bianco non è tanto una riflessione a freddo (spesso forte quando la componente danza prende il sopravvento sugli altri linguaggi sui quali si conduce l’ibridazione) sulla grammatica, quanto piuttosto il continuo risolversi di pratici problemi scenici a fronte del bisogno di narrare e divertire un pubblico che resta, per elezione, quello dei bambini. In questo lo spettacolo ha un’etica forte, cosa rara nel teatro (anche quello per ragazzi) di oggi. In rispetto al bisogno di coinvolgimento continuo dei ragazzi, ma senza diventare vuota animazione, L’alchimista bianco sceglie a monte di utilizzare la danza nello spazio franco del sogno, dell’incanto e della magia più pura, quella che non ha bisogno di cercare la strada delle parole. La sfida alla gravità, la magnificata perfezione del movimento del corpo nello spazio e la necessità dell’assoluta precisione della coreografia devono trovare, per questo, la possibilità di convivere con il gesto di un teatro più incline all’improvvisazione, al libero gioco nello spazio e all’ingombro di una narrazione che passa anche attraverso la parola che – e qui sta un punto d’incontro – non deve mai essere troppa avendo a che fare con un pubblico bambino. Il risultato di questo braccio di ferro porta L’alchimista bianco ad essere una fiaba che avanza, come sempre per la danza, per quadri staccati. Alcuni dei quali di incantata bellezza, capaci di lasciarci con un brivido sulla pelle di improvvisa poesia. Una scelta, questa, magnificata anche dal ricorso della retroproiezione di scenografie composte appunto da quadri (l’artista è Antonio Palma che disegna con un occhio al ricordo delle belle illustrazioni dei libri per ragazzi). Il teatro di figura porta invece, in questa matassa di suggestioni a un passo dal sogno, la concretezza materica delle soluzioni più spiazzanti, dei pupazzi, dei costumi e delle poche parole spese a indicare la precisa direzione del racconto. In questo modo il connubio tra poesia (si pensi alla meravigliosa evanescenza della sala dei cristalli) e buffo divertimento (il cammello che sfonda la quarta parete e si butta in mezzo al pubblico) è garantito. Meno garantita è la tenuta delle parti. L’alchimista bianco, che fonda la sua indubbia riuscita sulla pienezza di risultato dei singoli quadri, perde un po’ quota nell’insieme che dovrebbe tenere tutto unito nel filo forte della narrazione. Il personaggio principale si mette in viaggio per seguire una sua aspirazione, ma la sua avventura sembra per lo più un insieme di tappe senza il senso di un percorso. Un limite questo che, ne siamo sicuri, verrà presto superato non appena lo spettacolo, superati i primi momenti di rodaggio, diverrà quella macchina consumata di divertimento e di poesia che già promette di essere ora che sta muovendo i suoi primi passi. Anche perché il materiale su cui si fonda è quasi tutto di prim’ordine: dalle magnifiche coreografie alla calibrata successione di atmosfere e momenti, dalla cura per le musiche alla qualità scenografica che avrebbe forse bisogno solo (la scena del mercato) di qualche elemento in più. Una sfida, quindi, sicuramente vinta.
Teatro Bertolt Brecht e Compagnia Excursus L’alchimista bianco liberamente tratto da L’Alchimista di Paolo Coelho con Enrica Felici, Valerio De Vita, Giuseppe Di Pasquale disegni: Antonio Palma coreografie: Valerio De Vita Regia: Maurizio Stammati