Ha cominciato a girare porno perché cercava una forma di emancipazione sociale ed economica.
Figlio di una casalinga idolatrata e di un padre cantoniere, Rocco Antonio Tano (in arte Rocco Siffredi) ha vissuto la sua infanzia all’ombra della fatica dei genitori, consapevole del sacrificio che ci vuole per arrivare a fine mese, e ha sempre sognato una qualche forma di successo che gli potesse permettere di restituire loro un po’ di gioia.
Che la strada fosse quella del porno l’aveva capito quasi subito. Del resto aveva un diavolo in mezzo alle gambe e un istinto sessuale dominante, che si era risvegliato sin dall’età di otto, forse nove anni.
Nell’intervista che costituisce la spina dorsale del lungo documentario Rocco dei francesi Thierry Demaizière e Alban Teurlai (specializzati in film biografici, loro anche un bel lavoro su Fabrice Luchini), un ruolo decisivo a quello che sarebbe stato il destino del re del sesso viene dato al ricordo di quando, tornato un giorno da scuola, era andato di corsa in bagno a masturbarsi ed era stato sorpreso dalla madre che lo aveva visto dalla finestra. Nel ricordo, confessato con il candore di chi è consapevole di perpetrare una leggenda, è ancora forte il senso di vergogna provato sul momento, ma anche lo strano, misterioso sollievo che gli diede l’impressione di sorriso che aleggiava sulle labbra della donna, come volesse rassicurarlo che non c’era niente di male, che stava dalla sua parte.
È tra questi due poli di redenzione e autocondanna che si consuma tutto il percorso umano e artistico di Rocco Siffredi, un attore seriamente provato dalla morte del fratello e costantemente mosso dal desiderio di compiacere una madre (che lo avrebbe voluto prete, ma acconsentì al suo desiderio di fare l’attore a patto che fosse davvero felice così) che in qualche modo gli sfuggiva.
Tra questi due poli il porno diventa la condanna a un calvario stretto e doloroso. Un percorso che da una parte è sfida a superarsi, a capirsi e a liberare i propri istinti e dall’altro è condanna all’immolazione, al dolore, all’angoscia del giudizio che diventa poi lo sguardo della moglie e dei figli che lo schiacciano contro le sue stesse scelte esistenziali.
Un porno, insomma, vissuto come potente espressione di una libido irrefrenabile che è, però, al tempo stesso tenebra e tentazione di martirio, fatica fisica e morale, confronto con l’aspetto demoniaco che aspira, in fondo, all’atto estremo e impossibile dell’autopenetrazione.
In questa prospettiva il film nasce a avanza come una sofferta messa a nudo dell’anima a fronte di un corpo, da parte sua, sovraesposto e trasformato in icona da decenni di film, di sesso sfrenato, di penetrazioni, doppie penetrazioni e sesso anale. Paradosso estremo che solo due cineasti francesi avrebbero potuto rendere con tanta precisione e senza affanni moralisti.
Rubando scene dai set porno – lucidamente trasformati in stazioni di una via crucis ideale – montando interviste e materiali eterogenei, andando a curiosare nel rapporto del padre con i figli un po’ complici, un po’ vittime di un desiderio di dirsi del padre che rischia di mangiarli tutti, Rocco si rivela documentario di grande densità concettuale nel suo essere continua riflessione non tanto dei limiti della filmabilità del corpo, quanto della capacità dell’immagine di farsi epifania del senso stesso di un’intera esistenza.
Ne viene fuori un ritratto a tutto tondo che non cerca altro scandalo che non sia quello del provare a dire, con fatica, le contraddizioni tra essere e voler apparire. Nella consapevolezza che non ci sono troppo facili risposte.
CAST & CREDITS
(Rocco); Regia: Thierry Demaiziere & Alban Teurlai; interpreti: Rocco Siffredi, Rozsa Tano, Gabriele Galetta, Kelly Stafford, Mark Spiegler, Abella Danger, John Stagliano; produzione: Program 33, Mars Films; co-produzione: Falabracks; origine: Francia, 2016; durata: 107’