Che cos’è la poesia? si chiede Wislawa Szymborska a un certo punto della sua vita, inciampando quasi nelle parole che le volteggiano davanti agli occhi come gabbiani intorno a un peschereccio.
Poi, dopo la perdita dell’equilibrio, la resa: “Io non lo so” e, infine, la cocciuta utopia “non lo so e mi aggrappo a questo come alla salvezza di un corrimano”.
Ma un corrimano per dove in questa nave che affronta inebriata le onde del mare? C’è forse una passeggiata di legno? O non piuttosto una scala che, indomita corsa di gradini, sale in alto o sprofonda nel buio di una stiva?
A leggere le poesie di Rita Nappi, che sceglie le parole della poetessa polacca a epigrafe del suo bel libro I miei orizzonti di…versi, si ha quasi l’impressione che la scala ripida e stretta sia la metafora ideale di un percorso in cui la poesia sia sostegno e lascito, corrimano e ringhiera a quel viaggio in mare sempre a pericolo di naufragi che è la vita. Qualcosa a cui appoggiarsi e da cui guardare oltre. Verso le rive che si allontanano alle spalle, culle grate del nostro primo sentire. O verso gli orizzonti che ci si profilano davanti, inviti verso un infinito entro cui bisogna navigare senza bussola, nell’anelito profondo a scioglierci nei colori, nei silenzi, nelle pause e nelle parole.
Una scalinata da scendere “dandoti il braccio”, con la tenerezza quotidiana di un Montale, perché si vive forse per se stessi, ma si scrive sempre e solo per gli altri. Altrimenti non potrebbe essere Poesia.
Ed è così in apertura il libricino si schiude, quasi, in un augurio dolce alla nipote appena nata e che già affronta con fatica il primo gradino dell’esistenza, il più alto, quello da cui si vede ancora poco del cielo e delle
“attese, illusioni e amori.
Soluzioni e pegni.
Incontri, bivi e tanti disperati sogni”
che le riempiranno la vita.
Ed è proprio qui che la poesia è legato e dono grato, messaggio lasciato in una bottiglia nella speranza che torni a riva perché qualcuno lo trovi. Una poesia in cui l’orizzonte sta tutto nei futuri: “Ci saranno giorni” e poi “corse” e “braccia aperte” e “vedrai” e “amerai” e “sarai grande”, “sarai Isabel”.
Ma proprio perché aperta all’altro, mai solipsisticamente chiusa in se stessa, la poesia di Rita Nappi è una poesia che si concede, spesse volte, allo sdegno perché la speranza di futuro che non fa i conti con il presente sporco e brutto nel quale viviamo, non è utopia, ma semplice illusione, sogno ad occhi aperti cui può seguire solo il peggiore dei risvegli.
Ed ecco che i suoi versi, altrove gentili, si riempiono di inaspettate asprezze e il piano metaforico dell’orizzonte poetico si fa sassoso e irto, mentre il futuro diventa qualcosa da conquistare, anche col lavacro di se stessi, anche nella consapevolezza del bisogno di una purificazione che gratta la pelle con lana di vetro e che lascia scoperta la nudità più profonda del sentire, quella fatta di cartilagine e sangue. Così diventa urgente correre verso fiumi di pietra per bagnarsi di fiamma (“e mi lavai con il fuoco”) e anche la ricerca dell’ossigeno diventa
“Acqua che bevi,
ingoia la fonte:
scorre giù nelle tue viscere
e viene fuori in un respiro”.
Così la poesia si apre a squarci di mondo vero e canta città e paesaggi, in una limpida vocazione che resta sempre antropomorfica perché c’è sempre l’uomo, in tutte le sue contraddizioni, tra i vicoli di Napoli o nelle strade di Madrid.
Ma così la poesia si fa anche spudorata confessione, che non ammette reticenze e si dice e racconta senza veli in una limpida dissolvenza tra paesaggi esteriori e visioni interiori. Soprattutto si fa desiderio disperato di amare. Di saper imparare ad amare. Perché c’è bisogno che l’altro ce lo insegni (“Aiutami ad amarti”) altrimenti non ameremmo altro che la nostra immagine riflessa nelle sue pupille e non la speranza, il candore e il dolore, il sogno, l’incanto e il tormento “il riflesso della tua anima” che sola può aiutarmi a trovare la mia.
Qui la poesia di Rita Nappi si riempie di una voluttà erotica, intensa e palpitante, pulita e coinvolgente, si intesse di “Mille fremiti. Mille battiti. E la carne continua…” in un percorso che ha sempre come meta ultima il cuore attraverso la carne.
Attraverso mari di stoffa
nelle vesti rosse e lillà.
I rivoli di sudore e mani ardenti
attorno a fianchi bianchi e stretti.
Sfioro l’anima e il tuo Si.
Un percorso, quello raccontato da Rita Nappi che vede nell’amore la capacità di donarsi per lasciare andare. Non un amore esclusivo, né folle, ma un amore che follemente basta a se stesso per bastare all’altro e che, nel regalare i propri orizzonti si ritaglia un posto in quel cantuccio in cui le cose trascolorano nel ricordo e non sono più nostre perché sono ormai e per sempre parte di noi. Sono i mattoni con i quali abbiamo costruito il nostro dire e il nostro sentire.
E così anche l’augurio alla nipote che aveva aperto la raccolta, intimamente la chiude in quella visione di un futuro in cui potrebbe non esserci più spazio né tempo per l’io sognante che sa di poter solo guardare dalla riva la nave che si appresta a lasciare l’ancora alla volta di nuovi orizzonti. Con la dolce malinconia di chi resta, a guardare un futuro che è già tanto pieno di ricordo.