Mario è un giovane studente universitario di filosofia. Dalla natia Roma si è trasferito a Siena in cerca del posto più giusto, ma non sembra avere, in fondo, troppi grilli per la testa. Non è un figlio di papà, non ha un portafogli troppo pieno e, alla fin fine, non si è ancora fatto troppe domande sul futuro. Sta con una ragazza, Giovanna, che ha le movenze e spesso l’invadenza della femme fatale e con lei condivide molti momenti di sesso, ma poche tenerezze.
Più che altro Mario pensa alla finestra di fronte a casa sua. Quella che si vede meglio dal bagno del suo appartamento e che ogni giorno è il soggetto dei suoi schizzi veloci e dei quadrucci che disegna dall’angolo di strada, a rischio di apparire uno di quegli artisti extracomunitari che svendono disegni ai passanti per pochi euro.
La finestra è quella di Nando, un ragazzo atletico che getta Mario in confusione, che lo costringe a ripensarsi e non gli lascia più neanche il tempo per gli esami in facoltà.
Contraltare ideale, nella sua pulsione amorosa, alla storia con Giovanna che va avanti, tra alti e bassi, nelle invadenze delle amiche di lei, che se lo contendono come un giocattolo ricattabile in così tanti modi.
Mario sperimenta, così, sulla sua pelle una sorta di frattura insanabile tra pulsione sessuale e bisogno d’amore. Il primo estremizzato nella sua dimensione eterosessuale scivola nella perversione e si fa contorto e aggrovigliato, mentre il secondo, omosessuale, nuovo e quasi tenero, è sublimato in un anelito che è tensione e continua messa in discussione.
Per questo mentre il sesso con Giovanna (e con le di lei amiche) è disegnato con tratti di spietata chiarezza anatomica, l’amore provato, mai completamente esperito, forse condiviso con Nando scivola nel romanticismo strano delle prime volte, quando tutto è indiretto e incerto e quando non sembra tanto facile dare un nome alle cose.
Questa frattura a tratti dolorosa, che non si ricompone e pare destinata a collassare nella definitiva perdita di sé, trova in Streghe di Carmine Brancaccio una doppia espressione: la prima sul piano del linguaggio, la seconda su quello della forma.
Sul piano del linguaggio la scelta di una prosa secca, a tratti ispida, più che una concessione al genere (siamo pur sempre dalle parti di un filone erotico che non fa dell’esercizio di stile una delle proprie priorità), sembra rispondere al bisogno di rendere in chiave quasi fenomenologica e quanto più possibile oggettivata la frattura tra il vivere (la normalità della propria condizione di studente universitario) e il vedersi vivere (la vertigine spalancata dal dubbio suscitata dalla pulsione omoerotica). Una prosa, quindi, tendenzialmente asciutta, ma che pure si spezza, di tanto in tanto, in improvvise illuminazioni, soprattutto in quei momenti in cui l’io narrante sperimenta il senso di smarrimento che gli deriva dall’improvvisa consapevolezza di una distanza tra sé e la folla anonima. In questi momenti si indovina il lavorio di una penna ben esercitata nel linguaggio poetico e capace di marcare il senso di un paradosso esistenziale, quello di Mario, che sente che per andare incontro al suo desiderio di cambiamento deve sforzarsi di rimanere così com’è (che è in fondo anche la paura dell’io scoperto che teme l’altrui e il proprio stesso rifiuto).
Sul piano della forma, invece, Streghe attiva una sorta di frattura non più ricomponibile dell’asse che lega narratore, narrante e narratario.
E sta, in fondo, tutta qui la sua originalità e la sua innegabile forza espressiva, nella sua capacità di definire un taglio netto (davvero alla Fontana) tra un autore e un personaggio che vivono nel romanzo su piani e in momenti diversi malgrado l’artificio, mandato infine in crisi, dell’io narrante.
In questo modo autore e personaggio si riconoscono – nell’oltre della struttura romanzesca che è davvero una tela neutra (resa ancor più neutra dalla scelta di un genere come l’erotico potenzialmente grigio) tagliata con gesto d’artista – soprattutto nell’universalità del sentire. Perché le prime volte sono tali per tutti e la descrizione delle incertezze, degli sguardi, dei messaggi ambigui di due persone che si riconoscono, ma devono imparare a dirsi, sono davvero qualcosa in cui ciascuno di noi può riconoscersi.
In questo modo è il racconto stesso a fratturarsi in due linee che solo un occhio disattento interpreta in chiave di gender. Perché il romanzo non ci sembra tanto diviso in una parte maschile più sincera e vera e nell’altra femminile (quella delle streghe) luogo di finzione e ricatto, quanto piuttosto tra il cambiare e non cambiare, tra l’andare via e il restare, tra l’essere e il riconoscersi nell’immagine del nostro stesso essere. Non siamo, insomma, di fronte a un romanzo misogino, anche perché sono Tommy ed Emily (quindi un maschile e un femminile) i due personaggi che si fanno carico in modi diversi del racconto di Mario e che cercano, da diverse distanze (entrambe incolmabili), di porgere una mano che sia specchio e aiuto all’amico e amante.
Streghe resta così romanzo autoriale, pur nel rispetto delle convenzioni di genere (ennesimo esempio di un’anima divisa in due). Elegante nell’erotizzazione degli sguardi e dei suoni (la musica che da casa a casa sancisce l’inizio di un dialogo), sensuale nel rincorrersi dei climax, il libro paga qualche concessione di troppo a un certo mercato editoriale (forse proprio le streghe avrebbero avuto bisogno di un maggior respiro e non tanto in scene di sesso) e soprattutto paga il pegno a una copertina fuorviante e incapace di rendere la complessità del discorso romanzesco.