Le tre leggi della robotica:
1. Un robot non può recare danno ad un essere umano, né può permettere che, a causa del suo mancato intervento, un essere umano riceva danno.
2. Un robot deve ubbidire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.
3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima e la Seconda Legge.
Dietro queste poche, ed apparentemente banali, parole si nasconde una delle più grandi “trovate di genio” del secolo scorso. E non solo fantascientifica.
Queste tre leggi che di fatto dovrebbero governare il funzionamento del robot (al livello di un comune elettrodomestico) in realtà nascondono, dietro la patina della loro apparente semplicità, delle ambiguità di fondo incredibili.
Come può, infatti, il robot riconoscere l’Uomo dalle altre forme di vita che incontra durante la sua esistenza? Cosa succede se un robot si trova costretto a scegliere quale vita salvare tra due ugualmente in pericolo? Se un robot assiste all’uccisione di un essere umano, non potendo intervenire, come reagisce il suo cervello positronico allo shock?
Su queste domande poggiano molti dei più originali e spiazzanti racconti del grande scrittore di origine russa. E proprio nel loro appoggiarsi alla logica, queste opere rivelano quella che è la vera aspirazione del loro autore: produrre una narrazione avvincente quanto si vuole, ma, soprattutto, speculativa.
Il centro della narrazione è l’idea forte. Quello che spinge Isaac Asimov a scrivere i suoi racconti è il gusto per l’intreccio, il piacere di un racconto perfettamente calibrato in cui tutti gli elementi confluiscono in una perfetta, quanto profondamente logica, geometria.
Da ciò la propensione dell’autore nei confronti del racconto giallo, un genere di racconto, questo, che fa completamente appello all’intelligenza del lettore, alla sua voglia di essere stupito e sorpreso con delle costruzioni che restano sempre di impressionante coerenza. Da qui anche il gusto ironico che permea di sé tutte le pagine dello scrittore, in un rapporto con il pubblico che si vuole complice e sempre affetuosissimo.
Ma da qui anche l’allergia che il cinema, fino ad ora, aveva dimostrato nei suoi confronti. E tale allergia è sempre stata, comunque, reciproca.
Nel corso della sua carriera Asimov, infatti, ha incontrato poche volte il grande schermo, dimostrandosi più a suo agio con il piccolo più aperto a possibilità narrative “altre”.
È addirittura del 1953 (un anno prima dell’avvio dei grandi cicli romanzeschi di Abissi d’acciaio) la sceneggiatura per un episodio televisivo della serie Captain Video and His Video Rangers. Un’esperienza televisiva caratterizzata da una totale astrazione delle tracce narrative dal momento che era realizzata letteralmente a basso budget, senza effetti speciali e con set che per lo più consistevano in bianche pareti.
È in questo frangente che Asimov pensa alla storia di Tobor, ennesimo robot gigantesco la cui pericolosità dipende dall’uso che l’uomo ne fa.
Ma è tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 che il piccolo schermo saccheggia a piene mani la sua opera per serie televisive sconosciute in Italia come Out of the unknown che tenta, oltre a vari racconti e una novella, anche la strada di un maldestro adattamento (lo firma Robert Muller su carta e Rudolph Cartier con le immagini) del capolavoro Il sole nudo.
Da lì in poi l’interesse si dirada e si contano poche cose che per lo più stravolgono il senso delle pagine. Ad esempio The andorid affair del 1995 mai uscito in Italia, ma con lo scorsesiano Griffin Dunne (era in Fuori orario) nel cast.
Per quel che riguarda il cinema, invece, il primo incontro è avvenuto, forse, per Viaggio allucinante, golosissimo film di fantascienza di Fleischer di cui il russo ha scritto, molto malvolentieri, una novelization (curiosissima prassi quella del libro tratto dal film).
Dopo essere stato invitato a scrivere un soggetto per un film nel 1976 (ne risultò un discreto racconto pubblicato di cui non si fece più nulla) è fuori da Hollywood che si tenta la strada della traspozione dalle sue pagine. È del 1987 il caso di un curioso film della Germania dell’est, Konets vechnosti, tratto da La fine dell’Eternità, forse il film che meglio recupera le atmosfere della pagina asimoviana, se non altro per quel genuino sense of wonder che avevano le produzioni misconosciute al di qua del blocco della guerra fredda della fantascienza sovietica.
Solo dopo la morte dello scrittore, comunque, il cinema americano sembra aver trovato il coraggio di prendere spunto dalle sue opere.
Prima di L’uomo bicentenario, era stata la volta di un film tratto da quello che forse è il suo capolavoro narrativo: Nightfall, splendida storia di un mondo su cui la notte scende solo una volta ogni mille anni. Questo film, come quasi tutto ciò che è stato tratto da Asimov, non è mai stato distribuito in Italia. Il che è probabilmente un bene perché, nel tentativo di dare action e mistero a uno dei suoi racconti più limpidamente lineari, inserisce una trama di poteri telecinetici, qualche combattimento di arti marziali e attori espressivi quanto un bollito misto.
Quello che dispiace è però il modo barbaro con cui il cinema si appropria dei testi dello scrittore. La pagina asimoviana è raramente cinematica, ma il lavoro degli sceneggiatori per renderla più vicina ai recenti parametri del cinema di genere è a dir poco assurda.
lo si coglie chiaramente in Io, Robot, dove la dinamica del racconto giallo viene presto soppiantata da un’improbabile rivoluzione robotica con tanto di umani che prendono mazze e forconi per ricacciare indietro i novelli Frankenstein che non sono stati capaci di rimanere al loro posto a fianco degli spremiagrumi. E tremiamo al solo annuncio del prossimo Io, Robot 2.
Ma lo si coglie ancora di più in L’uomo bicentenario con il compianto Robin Williams.
Un solo esempio su tutti: la storia grondante miele tra Porthia ed Andrew che ricalca l’amore che il robot ha sempre provato per piccola Miss. Nel film: cascatoni, inseguimenti, baci appassionati, lunghe chiacchierate grondanti retorica, matrimonio finale e morte a due. Nel racconto, senza che nulla di tutto questo succeda, una sola frase mormorata poco prima di morire: “Piccola Miss”, troppo piano perché gli altri la sentano. Infinitamente più pudico, infinitamente più poetico.