I campetti di calcio di periferia ci sono ancora.
Il tripudio degli smartphone, dei tablet, dei videogiochi virtuali che salti e corri senza uscire dal salotto di casa non li hanno ancora cancellati dalle rughe del tessuto urbano.
Resistono, nel grigio triste di città sempre più asfaltate, con il loro ricordo di tramonti sudati, di grida affannate e di bandierine sventolanti.
Si portano ancora dentro l’odore di quando a calcio si giocava semplicemente perché era divertente e bello. Da prima, insomma, che l’interesse economico si mangiasse tutte le risate lasciandosi dietro talk show e processi buoni solo a riempire palinsesti televisivi.
Garrincha comincia in questo clima che ha già il sapore della favola. E si riempie, con il sorriso sulle labbra e una lacrima pronta a spuntare dietro gli occhi umidi di nostalgia, di tante altre cose che scompaiono nell’indifferenza generale.
La parlata romanesca, ad esempio. Non quella che resiste nel fetore della più recente commediola regionalistica italiana che è greve e fredda, ma quella tiepida che ha dentro la leggerezza dei pomeriggi di strada, che ha il sapore delle vecchie trattorie con i piatti spessi e fondi, che ha tutti gli echi dei vecchi androni delle case con cortile e annesso portiere.
Oppure ancora il gioco di una voce che racconta e che ha il sapore delle vecchie cronache sportive, quando il calcio non lo si vedeva troppo in televisione, e si ascoltava piuttosto con le vecchie radioline, con gli sbalzi di frequenza e il rumore ansioso delle scariche elettrostatiche che disturbavano la ricezione.
In fondo, una cosa veramente bella di questo spettacolo è la sua capacità di ritrovare proprio l’antica magia delle radiocronache, quando una voce da sola bastava a darti il senso delle azioni, l’impressione dello stadio e il colore dei grandi pomeriggi di gioco.
Garrincha è la storia triste di un campione indimenticato. Un giocatore, Manoel Francisco dos Santos, che ha ridisegnato il senso ultimo del suo ruolo di gioco. Una figura amata e osannata non solo per tante azioni indimenticabili, ma per lo spirito vero del suo stare in campo.
All’interno di un calcio che già si avviava verso la dimensione di vasta industria spettacolare, che addirittura veniva piegata al gioco di immagine dei potenti (famoso l’episodio della revoca della sua espulsione dalla squadra per la finale Brasile – Cecoslovacchia in piena guerra fredda), Garrincha ha incarnato l’idea di un calcio popolare e a suo modo candido, comunque estraneo alle manovre di un mondo in piena corsa verso il nostro oggi spento e triste.
Il grande merito dello spettacolo diretto da Giancarlo Fares sta nel voler raccontare la storia di questo campione attraverso il filtro del ricordo di quel calcio che fu e che solo a stento resiste ancora nei campetti di calcio di periferia.
Una favola dolce, che si riempie di sorrisi e di stupore perché entra nella pelle del suo personaggio e cerca, a ogni passo, di guardare il mondo attraverso i suoi occhi divertiti e ingenui.
E lo spettatore, preso per mano dai giocatori che sono sulla scena – uno (Franco Valeriano Solfiti) attore e l’altro (Pietro Petrosini) orchestra e coro – si ritrova suo malgrado a commuoversi e gioire, a indignarsi e a sognare al ritmo ineffabile di una narrazione affollata di personaggi, luoghi ed emozioni che suonano incredibilmente veri sempre.
Muovendosi su una scena completamente spoglia, senza un disegno luci a obbligare lo sguardo dello spettatore, tutto lo spettacolo segna il trionfo del potere evocativo della parola, del gesto e della musica.
Franco Valeriano Solfiti brilla per la sua capacità di tradurre in movimenti scenici non solo i diversi personaggi (ben undici giocatori, qualche comparsa e un coro di altre donne, madre e mogli di Garrincha), ma anche ambienti e (e sta forse qui il merito maggiore) intere azioni di gioco.
Il suo lavoro di scomposizione e ridefinizione dello spazio scenico in certi momenti è esemplare: preciso senza essere inutilmente virtuosistico, immediatamente riconoscibile per il pubblico senza apparire banale o scontato. Il gioco di dribbling intorno al sediolino di scena, ad esempio, pur tornando spesso, riesce a non sembrare mai ripetitivo, ma a caricarsi di una componente giocosa che ben si adatta alla resa scenica dei movimenti sul campo di Garrincha. Come ugualmente intrigante è l’approccio alla resa del protagonista ottenuto con un pronto rilassamento delle spalle, una immediata inclinazione dell’asse del corpo su un lato e un improvviso spianarsi della fronte su un semplice sorriso: efficace drammaturgia d’attore che rende i difetti fisici dell’uomo senza scivolare nella macchietta o nella semplice imitazione.
Il gioco d’attore è assecondato da un testo lieve, ricco di umori e di salti di tono e abile nello scivolare senza contraddizioni dalla rievocazione di un mondo all’atto d’accusa lucido di quella società che lo applaudì, lo dimenticò e troppo tardi si riunì nel lutto per la prematura scomparsa del campione.
Anche nella descrizione delle fasi di gioco il testo brilla per la sua capacità di rendere non tanto le cose in sé, ma le vibranti emozioni che provava chi le vedeva dagli spalti o in televisione.
Garrincha è uno spettacolo ospitato all’interno di Sciapò e restiamo ancora una volta colpiti dalla grande qualità di questo contenitore che, al di là dei risultati estetici delle varie proposte, non smette mai, dal suo cantuccio di nicchia, di cercare un teatro che sia prima di tutto vero oltre che giovane.
Uno spettacolo che trova il suo momento più incantato, a nostro parere, nella descrizione della prima partita di Garrincha. Quella di quando era ancora quel bambino cui i dottori avevano vietato il calcio. Quella di cui non si serbano ricordi, né testimonianze. Quella che fu senz’altro il suo primo grandissimo momento di gioco. Quella, insomma, per cui non bastano parole o azioni e che lo spettacolo affida alle sole percussioni del bravo Pietro Petrosini. Forse il momento più incantato di uno spettacolo decisamente bello.
Teatro libera tutti
21 febbraio, ore 21:00
Teatro Bertolt Brecht, via delle Terme Romane, Formia
Compagnia Malalingua
GARRINCHA, L’ANGELO DALLE GAMBE STORTE
regia di Giancarlo Fares
con Franco Valeriano Solfiti
percussioni Pietro Petrosini