Il fischio della Papera è puro movimento. Per questo piace particolarmente ai bambini.
Non è un testo poroso a caccia di ambizioni. Né nasconde la mano del sasso lanciato in faccia alla noia con una storia buona per tutte le stagioni. Tanto meno si fa bandiera a idee ingombranti e di peso che possano valergli almeno la benevolenza delle insegnanti che portano le classi a teatro.
Piuttosto, come Pinocchio, è un marameo sparato in faccia a più paludate idee di spettacolo. Somiglia, in fondo, ai fuochi artificiali che, per quanto restino più o meno uguali tutti gli anni, sono pur sempre qualcosa verso cui alzare il naso in cerca di stupore.
Eppure, per quanto libero dalla costrizione stretta di ogni bisogno di drammaturgia, mette in campo, senza che quasi ce ne si accorga, due giganteschi pezzi da Novanta.
Il primo è il mondo del circo, messo qui in scena in una serie di piccoli quadri, divertenti e movimentati che non sentono mai il bisogno di chiedere scusa per le risate che procurano.
Il secondo è, invece, la realtà alta e sfuggente della tradizione musicale popolare che passa per la lezione di Ambrogio Sparagna, accompagnato dall’intera orchestra di organetti di Alessandro Parente.
E se il mondo circense rappresenta il lato fiabesco e affabulatorio dello spettacolo, il versante musicale che ci passa sotto, sopra e attraverso è di una ricchezza a tratti sconcertante.
Il lato bello e a suo modo utopico de Il fischio della Papera è la sua vocazione al riconoscimento del diritto del bambino a un bello con cui sempre più perdiamo ogni contatto.
Quella musica che non sfigura nelle grandi sale da concerto e quella civiltà circense la cui grandezza ci pare sempre più inattuale nel mondo dei tablet e dei telefonini rappresentano per il bambino un altro distante, ma non troppo remoto, un mondo dei nonni che ha il sapore delle vecchie fiabe colorate. E, senza quasi che se ne accorga, il bambino che guarda lo spettacolo mette mano, occhi e orecchie su un patrimonio culturale colto nella sua vitalità disperata e bella.
Il fischio della Papera è il trionfo dell’evanescenza. È l’effervescenza che inebria a suon di bollicine che grattano palato e gola. Non dice molto, certo, a livello di contenuti d’uso più scolastico, ma usa gli ingredienti più densi per giocare col sorriso. È tradizione che non sa di vecchio e per questo non ti sembra neanche tale. Per certi aspetti ti sembra un bambino che costruisce un castello di sabbia con mattoni veri invece che con granelli. Oppure è come un cuoco che spruzza oro al posto del sale per dare sapore a una minestra che potrebbe essere quella di tutti i giorni.
Il bambino che vede lo spettacolo, senza rendersene troppo conto, apprende qualcosa sul teatro e qualcosa sulla musica. Ma più di questo (che già non è poco) viene calato, dalla bravura degli attori, in mezzo a un’esperienza comunitaria. Proprio lui che passa le sue giornate davanti allo schermo di un PC o di un televisore, per un’oretta appena si trova in mezzo agli altri a battere le mani, a ridere, a commentare, ad essere “insieme” con lo spettacolo e con i compagni in una lieta confusione che è esperienza più importante della classica morale della favola che siamo abituati a considerare il pane del suo nutrirsi culturale.
Il fischio della Papera era spettacolo diverso qualche anno fa. Pensato per due giullari attori che facevano circo con pochi pezzi di scena e tanta fantasia, si allarga, nella nuova edizione presentata all’Ariston di Gaeta in prima nazionale, a un quartetto di attori a metà tra mimi e trampolieri. Uno spettacolo che deve, in fondo, ancora trovare il perfetto equilibrio tra le parti, un perfetto amalgama tra le esigenze della musica e quelle della scena.
All’interno di una formula comunque formidabile che incanta nella successione vorticosa dei suoi quadri, dispiace, infatti, la mancanza di una linea narrativa che dia un senso più deciso di crescendo al gioco complessivo.
Come pure ci sarebbe bisogno di qualche pausa in più, di qualche momento di silenzio a dare un ritmo più deciso a una girandola altrimenti troppo indemoniata.
Forse lo spettacolo guadagnerebbe in poesia se desse un poco spazio anche al lato malinconico del teatro, se preferisse un po’ di blu ai tanti rossi e gialli, se permettesse al violinista di volare ogni tanto maigrittianamente sui tetti. Non ci vorrebbe neanche tanto: giusto un più preciso accordo tra musica (un po’ troppo avanti) e azione (un po’ troppo poca), giusto un maggiore senso di pulizia della scena che ci ricordi che il teatro, oltre al movimento indefesso, è anche lavoro, lavoro, lavoro che niente lascia al caso.
Ma è solo messa a punto di uno spettacolo cui auguriamo di girare tanto perché resta godibile dal primo aprirsi di sipario all’ultimo spegnersi di luci. Un’opera che non potrà che crescere di replica in replica, man mano che si stringe l’affiatamento delle parti.
Una rappresentazione che deve la sua riuscita non solo alla straordinaria qualità musicale che mette in campo (Ambrogio Sparagna è una certezza), ma anche al lavoro di ensemble degli attori che si affidano a un capo comico come Maurizio Stammati qui in gran forma. Colpisce in particolare la confidenza che l’attore ha di un ruolo costruito veramente con pochi tratti essenziali: una rigidità di posa e nelle spalle, un occhio torvo e stretto, un mento alto e serrato, un pizzico di messa in voce, due baffetti disegnati ed ecco qui il perfetto proprietario di circo, perennemente in scena, a osservare sottecchi tutto, muovendo passi certi e misurati. Un’attitudine che resta anche sotto il costume di papera che consegna lo spettacolo al suo giusto finale. Ugualmente importante è il fachiro di Salvatore Caggiari, tutto costruito su movimenti contraddittori di spalle, braccia e bacino. Un gioco sinuoso che mima il mondo indiano trovando risonanze clown più squisitamente occidentali. Domenico Santo (efficacissimo elefantino capace di superare senza peso le difficoltà aggiunte di un costume che intralciava qualche movimento) e Marco Mastantuono (rondinone impertinente al punto giusto) hanno dalla loro il peso dei trampoli che li rendono più figure che personaggi, ma non li fanno meno memorabili.
TEATRO 10 E LODE
Stagione di teatro per le scuole
09 febbraio 2015 ore 10.30
Gaeta, Teatro Ariston
Teatro Bertolt Brecht, Finisterre
IL FISCHIO DELLA PAPERA
PRIMA NAZIONALE
musiche dal vivo di Ambrogio Sparagna
orchestra di organetti di Alessandro Parente in scena
con Maurizio Stammati, Salvatore Caggiari, Marco Mastantuono e Domenico Santo