Entra in scena e subito si mette di spalle al pubblico.
Si aggiusta i polsini della giacca, si sistema meglio i vestiti addosso mentre un ragazzo, un po’ servo di scena, un po’ suggeritore, va avanti e indietro sistemando le ultime cose nell’astratto vuoto della scatola nera del teatro.
Sul palco solo una specie di leggio, un parallelepipedo di plastica trasparente, alto e stretto, fa intuire la sua presenza grazie allo spot bianco che, dall’alto, disegna i suoi contorni davanti alle quinte scure e al fondale cupo.
Poi l’attore si rivolge alla platea e dichiara una sconfitta.
Lì, su quel tavolato, dovevano esserci due personaggi: un ottantenne e un diciottenne. Doveva esserci anche una scenografia ben più importante con l’insegna di un Bar, un tavolino, qualche sedia e qualche rada foglia ottobrina a darci un’impressione di selciato.
Invece non c’è niente. Solo spazio vuoto e un attore che dovrebbe fare di necessità virtù e simulare, con la forza del mestiere, quello che c’è scritto sul copione.
Ma l’attore è stanco, dopo tanti anni, di imitare voci, di simulare azioni, di rendersi piazza piena di maschere e personaggi ad uso di un pubblico sempre più distratto.
Così lo spettacolo prende corpo quasi suo malgrado in un continuo braccio di ferro tra l’esigenza del dire e una strana reticenza stanca, uno strano bisogno di appendere al chiodo un mestiere che non sta stretto, ma che con il tempo si è fatto scomodo e pesante.
Tanto più questa volta che sotto la furia di un testo che è una grandinata di parole, sta acquattata una dimensione autobiografica che, ci dice Alessandro Benvenuti, non dovrebbe starci perché non è giusto rubare agli altri i motivi della propria arte.
Questo dissidio interno tra il dirsi e il dire, tra il raccontare e sentire di non poterlo veramente fare, sta tutta la poesia di L’atletico Ghiacciaia.
La sua forza è proprio il suo essere né qui, né lì, nella sua capacità di fare oggetto di discorso la sua difficoltà a farsi testo, a sentirsi luogo caldo dell’espressione di un sentimento.
Nel suo pudore trattenuto, L’atletico Ghiacciaia è, però, per paradosso uno spettacolo spudorato, eccessivo, debordante. Come quei bambini che temendo di essere rifiutati dalla maestra fanno rumore in classe per sembrare spacconi quando, invece, hanno solo paura.
Così centro vitale del discorso diventa la logorrea di Gino (protagonista ispirato al padre dello stesso Benvenuti), il suo gridare ai quattro venti il suo malcontento e il suo non sentirsi mai in sintonia con il politically correct tanto in voga in questi giorni di triste abitudine al peggio.
La sua voce prima ancora che storia è parlata. Il dialetto toscano non è un vezzo regionale, ma il punto di partenza di un riconoscimento identitario che si sente scomodo, ma non per questo sente il bisogno di chiedere scusa se è quello che è.
Del resto, al di là dell’improvviso inaspettato aprirsi di alcuni dettagli autobiografici (la sorella che non vuole vederlo più, il ricordo di un incidente con una carabina), tutto lo spettacolo si concentra in una conversazione in un bar poco prima e poco dopo la chiusura del locale.
Un discorso a ruota libera che tocca tutto e niente in una girandola che dovrebbe ingannare l’attesa e si fa confessione suo malgrado, come sempre quando si sta con un barista che ci riempie il bicchiere già colmo delle nostre preoccupazioni.
Così anche qui, nella sublime costruzione a fuochi artificiali di un testo che non dà respiro, si parla di politica, di Torri gemelle, di religione e dei delitti che si perpetrano in suo nome, per ingannare quel vuoto che ci attanaglia il cuore, quella mancanza di senso che sembra sciogliersi solo quando si ricorda proustianamente un passato più dolce, fosse anche solo quello di una squadra di calcio in un tempo in cui il gioco non era muscolare, come oggi, ma di cuore e di emozioni.
L’atletico ghiacciaia è un tour de force attoriale di portata spesso inaudita. Un groviglio di parole che si sciorina peggio di uno scioglilingua e che solo raramente sfora nel virtuosismo puro e semplice.
Colpisce, come sempre, Alessandro Benvenuti, per la sua gestione di un testo così ricco di autobiografia eppure così affamato di universale. Il suo è un lavoro di messa in voce del testo che cerca poco il gesto e ancora meno il movimento. Di tutto lo spazio che gli regala il palco, lui si ritaglia un quadratino appena e lascia alla sua sola presenza, al timbro della voce, il compito di evocare spazi e luoghi che sono appena suggeriti dal disegno luci che gli si stringe addosso con la precisione di una matita da disegno che cerca l’essenzialità del tratto più che il chiaroscuro.
Da un attore del suo calibro non c’era aspettarsi nulla di meno ed è rassicurante sentirsi confermate tutte le promesse.
La sorpresa, semmai, è nella presenza di Francesco Gabrielli che gli tiene dietro in maniera invidiabile. Perfetto quando tiene un piede nel testo e un altro nella finzione della prova, l’attore supera agilmente la semplice dimensione di spalla per caricarsi di un peso drammaturgico più netto in un gioco di sfumature che va dai passettini del servo di scena che si fa notare proprio per il suo fingersi invisibile, alla sicurezza adolescenziale del barista confidente. Ed è bello l’equilibrio tra due approcci diversi eppure così perfettamente bilanciati tra loro.
Per tutti questi motivi L’atletico Ghiacciaia è un’esperienza teatrale di peso che accompagna lo spettatore anche molto tempo dopo il chiudersi del sipario.
SENZA SIPARIO
Stagione del teatro d’attore
14 Febbraio 20:30 – 15 febbraio ore 18:00
Teatro Remigio Paone, Formia
Arca Azzurra Teatro, Firenze
L’ATLETICO GHIACCIAIA
di Alessandro Benvenuti
con Alessandro Benvenuti, Francesco Gabrielli