Il giallo è il figlio minore del razionalismo positivista.
Come tutti i figli più piccoli è un po’ scapestrato e qualche volta fa i capricci, ma alla lunga è la dimostrazione di quell’antico detto secondo cui la mela non cade mai troppo lontano dall’albero.
Ha rapporti stretti con il Romanticismo, che è suo fratello maggiore, soprattutto perché ha a che fare con delitti spesso efferati che riportano l’Uomo alla sua natura più bestiale. E l’avere così stretto legame con la Morte, lo avvicina ai cimiteri di certo gotico anglosassone.
In fondo uno dei padri del giallo è stato Edgar Allan Poe e questo vorrà pur dire qualcosa!
Nonostante questi legami stretti con la sfera irrazionale, con la paura della Morte, con il delitto che riporta l’Uomo dallo Spirito alla Carne, la radice più tenace del genere è comunque con la Ragione Illuminista. È lei, infatti, ad opporsi come estremo baluardo all’irrazionale barbarie del delitto.
E per questo la grammatica del genere prevede che l’investigatore (spesso, come vuole Agatha Christie, un simpatico anzianotto perfettamente calato in un destino borghese) risolva i segni sparsi di indizi raccapriccianti nella precisa trama di una fredda partita di scacchi.
Filosoficamente, quindi, il giallo è il genere che segna il trionfo della Ragione (borghese) sull’irrazionalità del Creato. Di fronte all’incomprensibilità del Mondo, il genere risponde con la magnificazione del ragionamento come strumento di interpretazione e codificazione del reale. In questo modo anche l’orrore della morte viene ricondotto nel solco di un percorso esperibile e il racconto si fa morale perché insegna, secondo l’etica del poliziotto, che il delitto (che perfetto non esiste) non paga.
Dürenmatt (che è nato nel 1921 e ha ben visto gli orrori irrazionali del secondo conflitto mondiale) è, però, un autore novecentesco.
Lontano dal positivismo più eroico, guarda al ragionamento come un uomo che conosce i paradossi della fisica quantistica e della relatività. Da scrittore sa bene che il giallo riposa su una premessa indimostrabile e, in fondo, assurda: che il razionale possa prevalere sul caos. I suoi non sono gialli, ma distorsioni della grammatica del genere che, per paradosso, dimostrano l’assurdità del meccanismo proprio mentre sembrano magnificarlo.
L’assassino e il suo doppio (liberamente tratto da Il giudice e il suo boia) è una dimostrazione perfetta di questo stravolgimento filosofico del genere. E la regia e la riscrittura per la scena di Augusto Zucchi assecondano con precisione lo stravolgimento dei canoni gialli.
Apparentemente gli ingredienti del giallo ci sono tutti: un anziano investigatore (di estrazione borghese abbastanza altolocata) alle soglie della pensione, un delitto, una pista da seguire, degli indizi che si accavallano. La geometria della costruzione dell’intreccio è ben esemplificata dalla successione di entrate e uscite di scena secondo una direttiva lineare e obbligata.
Si entra e si esce sempre e solo dalla porta sulla destra, a sinistra c’è, invece, un disimpegno, un angolo buio che rappresenta anche metafisicamente lo spazio dei fantasmi, del passato che torna (il lato mancino è sempre origine: da lì nasce anche la scrittura), dell’incubo e della maschera (è lì anche che l’investigatore si rifugia per ordire il suo tranello risolutivo).
Questo razionalismo scenografico (reso consapevole dall’impiego di una palette di grigi di grande suggestione che definisce un’atmosfera in bianco e nero) è coerente con la linea drammaturgica che impagina il racconto secondo una calcolata successione di scene in cui i vari personaggi si alternano nel loro far da spalla alle elucubrazioni solitarie dell’indiscusso protagonista.
Un meccanismo tanto rigido da rischiare un certo meccanicismo su cui, in certi momenti (ma abbastanza raramente), lo spettacolo un poco inciampa, senza mai arenarsi.
Quello che è rispettato sul piano della Forma viene, però, superato a livello filosofico. L’assassino e il suo doppio, infatti, ribalta le aspettative del pubblico e fa franare la dimensione di racconto morale del classico giallo. Nella risoluzione dell’intreccio, infatti, l’assassino che viene punito, è giudicato per l’unica colpa che non ha commesso, mentre il vero colpevole del crimine che muove l’intreccio, pur se scoperto per la soddisfazione razionalista del pubblico, non solo non è arrestato, ma viene addirittura promosso per meriti di servizio.
Di più: superato il piano convenzionale della narrazione, entrando nella dimensione metafisica, esiste, secondo Dürenmatt un solo ed unico assassino, il giudice stesso. È lui che involontariamente dà il via alla catena di delitti del suo arcinemico che uccide vittime innocenti al solo scopo di dimostrare che si può uccidere senza che la legge possa realmente fermarlo. È lui che crea le condizioni, con le sue investigazioni, che portano al delitto raccontato ne L’assassino e il suo doppio.
Di qui l’intrigante scelta di cambiare il titolo del romanzo del grande scrittore tedesco. Se esiste un assassino, il giudice è il suo doppio. O meglio ancora: l’assassino è il giudice e il suo doppio è solo una maschera che non può essere punita.
Paradossalmente, ma con grande sapienza filosofica, alla fine dello spettacolo (e del romanzo) l’assassino che viene punito per l’unico crimine che non ha commesso, morendo trionfa. Dimostra per assurdo che può uccidere senza essere punito. La sola punizione che riceve, infatti, non è per i suoi crimini, ma per quelli di un altro.
In questo modo le dinamiche del giallo si ribaltano nel loro opposto. Il giallo e il suo doppio. E il paradosso è che, contrariamente a quanto lo stesso personaggio afferma a inizio spettacolo, è la giustizia divina, quindi quella metafisica, alla fine che lo punisce condannandolo a una malattia mortale.
La riuscita dello spettacolo, che rispetta le premesse con una precisione spesso sorprendente, poggia tutta sulle spalle degli attori. Lo spettacolo sembra, da questo punto di vista, essere costruito su misura per Augusto Zucchi che respira a tempo con il copione con la confidenza del grande attore di teatro che porge ogni battuta senza dover dimostrare niente a nessuno. La sua gestione dello spazio scenico è sicura nel suo perfetto equilibrio tra la messa in voce di un personaggio che è prigioniero del suo mondo e del suo delirio giustizialista e la fisicità stanca del ruolo.
Bene si può dire anche di Fabrizio Vona che ha a che fare con un personaggio più nervoso, restituito in un accavallarsi di parole e movimenti secchi e spigolosi che bene si adeguano alla dinamica pulsionale, invidiosa e istintiva del personaggio. Fabrizio Bordignon ed Eleonora Tiberia, da parte loro, hanno i personaggi più ingrati. Il primo, legato al travestimento e alla maschera, alla dissimulazione e all’intrigo si barcamena bene evitando i facili manierismi che stanno dietro l’angolo quando si parla di arcicattivi. La seconda sta più stretta nella parte della fida segreteria che è più intelligente di quanto non sembri, ma resta comunque perfettamente in quadro con tutti gli altri.
Nel complesso L’assassino e il suo doppio è un’operazione intrigante e originale capace di mantenere tutte le sue promesse.
SENZA SIPARIO
Stagione del teatro d’attore
31 gennaio ore 20:30 – 1 febbraio ore 18:00
Teatro Remigio Paone, Formia
Bon Voyage Produzioni – Frosinone Teatro
L’ASSASSINO E IL SUO DOPPIO
noir teatrale di Augusto Zucchi
con Augusto Zucchi, Fabrizio Vona, Fabrizio Bordignon, Eleonora Tiberia
consulenza criminologica Vincenzo Mastronardi
aiuto regia Chiara Cavalieri
costumi di Bice Minori
musiche di Paolo Vivaldi
scene di Alberto Vona
regia di Augusto Zucchi