Cinquanta sfumature di grigio è eminentemente un’enorme, neanche troppo sapiente, costruzione commerciale.
Ha le dinamiche del Fast food che impilano il cibo negli orrendi ingranaggi della catena di montaggio spacciando carboidrati per proteine. O, meglio ancora, è come quegli ipermercati che sorgono dove si presuppone possa esserci domanda e sufficiente movimento di famigliole a passeggio il pomeriggio quando è fresco.
Come per queste città del commercio, quel che conta non è la merce messa in vendita, ma la vetrina, la capacità di acchiappare al volo sguardi muniti di portafogli. L’oggetto del commercio è, invece, illusione, l’impressione dell’affare di uno scambio più o meno equo tra soldi e cose che sono più incarto e confezione che contenuto.
E anche per Cinquanta sfumature di grigiola luce della confezione è tutto cellophane che andrà ad ingombrare i cestini dei rifiuti di una differenziata sempre più difficile.
Il film, a pensarci su un momento, è iniziato mesi fa quando si è cominciato a parlare della sua stessa realizzazione. Il film è stato il gossip del lancio. Il casting messo a bella presa sui titoli dei giornali per le quindicenni come materia di discussione a scuola tra una campana e l’altra. È stato gli immensi cartonati che hanno riempito gli atri dei cinema con frasi di lancio che promettevano promiscue ambiguità. O anche le vele gigantesche con i volti degli attori che riempivano gli ingressi delle stazioni ferroviarie. Ma è stato anche la voce, fatta abilmente circolare tra gli addetti ai lavori, che era meglio aprire le prevendite perché le mille e passa sale che lo avrebbero programmato sarebbero state troppo piene.
Tutto questo è stato il film e non lo è stato. È stata la vetrina del negozio che si è preparata in vista dell’evento atteso. E come ogni vetrina era spazio da riempirsi di manichini freddi da vestire con le griffe del momento.
Tutto il film non è stato, ora che l’abbiamo visto in sala con una punta di noia gonfiata da sbadigli, che il proseguimento stanco di questo losco allestimento.
Nello spazio astratto dello schermo sono stati, così, messi prima di tutto due manichini. E poi automobili potenti, elicotteri, aerei, deltaplani, alberghi lussuosi, martini con olive, vestiti firmatissimi, frustini di cuoio e lunghe scalinate. Superfici astratte hanno disegnato un’impressione di eleganza confinante con il vuoto e, nel bel mezzo di tanto nulla, pianoforti a coda da suonare solo di notte, al buio, e domestici silenziosi.
Tutto per il mestiere di ogni vetrina: l’allusione al sesso. Perché per quanto giri il mondo è l’illusione del sesso quella che si vende. E non importa se la merce che si acquista in cambio di questa impressione di promessa è un aspirapolvere, un libro o un ombrello cinese.
Cinquanta sfumature di grigio, in fondo, è stato romanzo che ha venduto perché ha raccontato, sulla base di una trama lineare e piana, l’ansia della perdita della verginità. Per questo le acquirenti principali sono state le ragazze in piena crisi adolescenziale. L’ha fatto mettendo al centro un possibile lupo cattivo che pensa sadomaso, ma che seduce come un vampiro. Il plot si regge su una doppia pulsione che a una certa età soprattutto è forte, ma che resta universale: volere e aver paura di volere, desiderare e temere le dimensioni stesse di quel desiderio che trionfa anche sulla volontà più ferrea.
Su questa doppia spinta che gioca a rimpiattino con l’esigenza di comprendere i limiti del proprio bisogno di sperimentare si innesta, forse più nel film che non nel libro, un certo bisogno di purezza. Anastasia si piega al volere di Christian perché se ne innamora. Il cedimento al sesso passa per una pulsione che prima di tutto è materna e uterina. Più che soddisfare, come succube, i voleri del dominatore, la protagonista ambisce a curarlo. E così la paura del sesso si ribilancia nell’altro grande desiderio che, ci dice il film, domina la mente delle ragazze (e delle donne): l’ansia da crocerossina.
Christian da parte sua diventa succube di una condizione familiare contorta e travagliata. È sadico (con ben cinquanta sfumature di perversione: come le avrà contate?) e cinico, ma ascolta Villa Lobos in casa e dona ai bambini del terzo mondo quel che può per lenire la loro fame. Senza cuore, ma perché il suo l’ha chiuso in cassaforte per il troppo dolore. Il lupo cattivo resta così, pericoloso, solo perché ferito e non stona troppa che la bella si innamori di lui.
In questo modo, però, in questa politica cerchiobottaia, il racconto si impantana nelle sue stesse premesse. È statico e inerte appunto come una vetrina, dove la continua allusione al sesso resta ferma al buon gusto dei manichini senza organi riproduttivi.
Non entra nelle ossa, ma resta sulla soglia. La famosa allusione ad Alice nel paese delle meraviglie (al risveglio dopo una notte di bagordi, Anastasia trova due biglietti “Mangiami” e “Bevimi” come l’eroina carroliana) non comporta l’entrata in un mondo dalle regole distorte. Semmai si resta sempre sulla soglia. Se ne parla come clausole di un contratto da leggere ad alta voce, ma senza che una firma venga mai apposta sulla linea tratteggiata. Al “Benvenuta nel mio mondo” che Christian pronuncia a un certo punto corrisponde per paradosso il racconto di un corteggiamento in fondo tradizionale con lei che incontra i genitori di lui e viceversa. Il resto è sempre promesso a dopo e quando arriva sono sei (contate sei) frustate che non lasciano neanche il segno sul corpo nudo da modella che si allontana di spalle in campo medio.
Come nei manichini di una vetrina, anche in Cinquanta sfumature di grigio, l’azione è allusa dalla posa, ma tutto resta fermo. Il racconto non avanza perché in fondo c’è davvero poco da raccontare. E con dialoghi risibili non c’è spazio neanche per la psicologia, se non per quella spiccia dei bignami. La regista da parte sua fa quel che può per tentare la strada di una freddezza quasi etnografica, ma resta prigioniera di premesse che non sono mai state veramente sue.
E quando i conti del tutto vengono chiusi, tolto ogni incarto dalla confezione, resta solo vuoto e il triste pensiero dei troppi soldi rubati alla beneficenza.
(Fifty Shades of Grey); Regia: Sam Taylor-Johnson; sceneggiatura: Kelly Marcel, Patrick Marber, Mark Bombarck;fotografia: Seamus McGarvey; montaggio: Lisa Gunning; musica: Danny Elfman; interpreti: Jamie Dornan, Dakota Johnson, Eloise Mumford, Luke Grimes, Jennifer Ehle, Victor Rasuk, Marcia Gay Harden, Max Martini, Rachel Skarsten, Dylan Neal, Anthony Konechny, Callum Keith Rennie; produzione: Focus Features, Michael De Luca Productions, Trigger Street Productions; distribuzione: Universal Pictures Italia; origine: USA, 2015; durata: 125’