Dio non è più il solito rogo che non si consuma mai. Non è neanche un vocione roboante che scavalca tempo e spazio, acusma perfetto e indiscutibile per spettatori troppo pigri.
Secondo Scott Dio è piuttosto un bambinetto capriccioso e dal cipiglio cupo. Un ragazzino dispettoso e vendicativo come certe volte solo il Cristo di alcuni apocrifi.
Ha gli occhi stretti in due fessure e un broncio teso e caparbio come certi bambinetti cui allungheresti volentieri due pizze se li incontrassi a un angolo di strada.
È anche un po’ inquietante nella limpidezza di argomentazioni troppo acute per un corpo così piccolo e fa un po’ paura perché è pronto a far sfaceli senza preoccuparsi della sofferenza che arreca agli uomini. Anche a quelli che pregano in suo nome.
Non pretende di essere capito e non ha nemmeno davvero bisogno di essere obbedito. Gli ebrei d’Egitto li può liberare con e senza l’aiuto di Mosè. E, in effetti, quando le cose cominciano ad andare un po’ troppo per le lunghe, chiede al suo profeta che se ne stia zitto e fermo a guardare l’orrore delle piaghe che si abbattono sui mortali.
In fondo, oltre che bambino è anche un po’ regista. Prepara il suo set e poi lascia al dispiego degli effetti speciali il compito di muovere le fila del racconto.
In fin dei conti il vero duello del film non è quello scontato e umano tra Mosè e Ramses, ma quello tra umano e divino, tra creatore e creatura. Perenne ossessione del cinema di Scott che riposa sullo sconvolgimento di essere fatti a immagine e somiglianza di qualcosa che sta sempre fuori dei confini dello schermo e, al tempo stesso, sempre negli occhi di chi guarda.
Cosicché questo Dio che ha creato Mosè è un abisso sfuggente di contraddizioni. Sceglie per l’uomo un destino che scrive a lettere di sangue, ma poi lascia libero ciascuno di farsi a modo suo con le sue scelte. Accetta di essere messo in discussione anche se ha dalla sua il portento del miracolo con cui sarebbe così facile asservire ogni coscienza. Otterrebbe quel che vuole anche se tu ti ribellassi eppure, mai, in nessun momento, ti toglie il diritto a ribellarti.
Non si può dire che ami il suo popolo, se non come i creatori amano l’uomo in Prometheus, ma la vera essenza del suo rapporto con l’umanità non è nell’amore, quanto piuttosto nella lotta.
Del resto lo dice lo stesso Mosè proprio a inizio film, il vero significato di israelita non è, come vorrebbe il viceré di Pitom, “un popolo che muove guerra a Dio”, ma “un popolo che lotta con Dio”. E, alla fine, tutto il cinema di Scott è proprio il racconto di una lotta tra creatore e creatura, tra padre e figlio, tra eroe e destino.
In fondo anche tra regista e materia, tra autore e racconto perché ogni processo di scrittura si trasforma in lotta quando l’opera comincia ad avere abbastanza vita di suo da imporsi su chi scrive.
Exodus – Dei e re non è l’opera più bella di Scott.
Come Kolossal colpisce per la sua vocazione a chiudersi in uno spazio contenuto e apparentemente poco ambizioso.
Come film biblico stupisce la sua vocazione così poco sacrale che è meno visionaria e autoriale di un Aronofsky, pur senza concedere troppe deroghe al genere.
Come portento catastrofico disorienta per il poco spazio che concede agli effetti speciali, spesso ridotti a sfondo o trattati come eventi secondari (e stiamo parlando delle piaghe d’Egitto).
Eppure malgrado i limiti di un film spesso squilibrato e qualche volta più di mestiere che di poesia, rimane un’opera stranamente personale e con non pochi spunti di interesse.
E ha il merito di chiudere il braccio di ferro tra Uomo e Dio in un ultimo sguardo che si perde nel non detto. In un sorriso che è un reciproco riconoscersi nella stessa sostanza del sogno.