Caduto fuori dal tempo

Le parole costruiscono ponti, ma per farlo devono prima scavare fondamenta. E il lavoro di scavo non è mai facile.
Bisogna affondare le mani nella terra umida di pianto, bisogna ferirsi le dita nei sassi aguzzi nascosti dall’ombra, bisogna essere pronti a trovare l’ostacolo del Non senso che ci frena la mano.
Scrivere della perdita, poi, è ancora più improbo dal momento che la categoria dell’indicibile, dell’innominabile ci tenta così da vicino.
Improbo perché il lavoro di scavo coesiste con quello dello slancio verso l’alto. Perché si costruisce sulla desolazione di un paesaggio martoriato. Perché non sembra giusto andare avanti quando ci si appoggia, zoppicanti, al bastone duro del lutto. Perché il “mai più” che ci riempie la testa con il suo eco persistente riempie anche di vuoto ogni nuovo giorno.
Il silenzio sembra essere la forma di espressione più desiderabile, ma ci fa di sasso, stupefatti come statue di sale troppo lontane dall’acqua che discioglie e porta vita. Così per continuare a vivere dobbiamo fare la cosa più straziante: rendere viva la morte della persona amata. Sentirla a un passo, ma dietro un vetro infrangibile che fa passare solo l’apparenza, lasciando dall’altra parte gli odori, i suoni e il freddo oscuro.

Nella sua orazione funebre per il figlio Uri, David Grossman ha scritto: «Eri l’israeliano perfetto!».
Perfetto nella gentilezza, nel saper porgere, nel non aver dimenticato la strada del dolore che è la strada più breve al cuore dell’altro.
E aveva raccontato di come, quando prestava servizio ai posti di blocco, cercava sempre di rendere meno penoso il passaggio ai bambini palestinesi pieni di paura che guardavano proprio lui, di colpo fatto mostro su una strada di spaventi. Lo faceva porgendo un sorriso, una consolazione, sapendo che quel sorriso non poteva troppo facilmente essere accettato, né ricambiato ma che, non per questo, poteva semplicemente essere negato.

Per il suo figlio perduto Grossman ha scritto Caduto fuori dal tempo che è la trenodia israeliana perfetta.
Ideale perché passa il dolore individuale nel prisma del sentimento collettivo, perché sente ad ogni passo che il dolore di uno è il dolore di tutti e che, come nella metafora buddista che tanto facilmente dimentichiamo nel nostro occidente anestetizzato, non c’è casa, nel vasto mondo, che non sia stata visitata dalla perdita o abitata da un’assenza.
Così il romanzo si fa marcia dolente di una collettività che si riunisce nel lutto, che si riconosce nel bisogno del verso, unica parola capace di stare così vicina al non detto e al non dicibile della morte e della nostra incapacità a capirla.
E anche noi lettori ci mettiamo in marcia, danzando come nel film di Bergman dietro una morte che non gioca più neanche a scacchi, ma ci rivolge sempre un sorriso di sfinge peggiore di ogni indovinello.

Non lo sapevamo, fino a poche pagine fa, ma abbiamo un fratello, un figlio, un amico anche noi e si chiama Uri.
Scopriamo della sua esistenza attraverso la sua assenza.
Ci diventa vicino nel suo allontanarsi oltre un orizzonte indefinito.
Lo conosciamo, in fondo, proprio per il nostro non averlo conosciuto.
E questo libro è la fotografia del suo morire, piena del mistero della vita come tutte le Messe da Requiem che si ascoltano stringendosi l’un l’altro.

In fondo ci è diventato fratello proprio perché è morto. E ci si spezza il cuore a sentirlo così bene sulla pelle.

 

 

Autore: David Grossman
TitoloCaduto fuori del tempo
Titolo originaleNofel michutz lezman
Traduzione: Alessandra Shomroni
Collana: Scrittori italiani e stranieri
Editore: Mondadori
Dati: 192 pp, copertina rigida
Anno: 2012
Prezzo: 18,50 €
Isbn: 978-88-04-62391-5
webinfoScheda libro sul sito Mondadori

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