Il dialogo, quando è vero, ha la delicatezza di un arazzo.
Il suo paradosso è che esso nasce non nel dire, ma nell’ascoltare. Esso vive, infatti, nell’attitudine al silenzio che riempie i tempi vivi del nostro essere al mondo.
Il silenzio è, per questo, ponte più della parola stessa che, nel nostro mondo fatto di superficialità assortite, sembra essere l’unica cosa capace di colmare le distanze. Esso, anzi, è il vuoto che riempie perché non è assenza, ma disponibilità a riempirsi di presenza.
Nel silenzio siamo a un passo dall’oggetto amato, sfioriamo il suo cuore nel nostro desiderio di farci tutto orecchio. La parola, invece, nel suo essere nell’aria, è divisiva, afferma una distanza anche quando dice trepidante solo “Ti amo”.
ConTatti DiVersi, nel panorama di una poesia che tendenzialmente oggi afferma e crea distanze, è intrinsecamente bello nel suo essere straordinariamente silenzioso.
È delicato non nel suo essere una successione di versi, ma nel suo essere contatto tra i versi. La sua bellezza non sta nelle parole, ma vive tra una parola e l’altra in quel silenzioso spazio vuoto e bianco che è l’ascolto prima di dire e il silenzio prima di dirsi.
Esso nasce all’interno di un progetto utopico: alcuni poeti si sono incontrati su Facebook e hanno cominciato a sognare insieme.
Sulle note che corredano, avare e poche, questo bel libricino edito da deComporre si racconta che l’idea fu quella di unire insieme varie voci creando qualcosa di diverso da un semplice volume collettaneo. L’idea era, insomma, quella di creare poesie unendo in dialogo versi composti da autori distanti che la rete avvicinava in un dialogo fatto semplice anche dalla tecnologia.
Non credeteci! È un’esemplificazione che non rende giustizia alla complessità del risultato finale. Perché la bellezza del progetto non è quella di unire varie voci, ma quella di mettere insieme tanti silenzi e lasciare ad essi tutto il compito di unire.
Nel leggere i vari componimenti di questo libello intessuto di azzurro si rimane, infatti, colpiti proprio dalla leggerezza con cui gli autori del dialogo si ascoltano, si richiamano, si leggono. Il loro dirsi, condizione essenziale del poetare, passa prima di tutto nel loro ascoltarsi perché la compiutezza del risultato finale dipende dall’incastro e dall’interessenza e non dall’allontanamento egoico.
Dicevano i vecchi maestri di teatro che se si vuole andare veloci bisogna andare soli, ma se si vuole andare lontano bisogna camminare tutti insieme. Ebbene qui i poeti non si limitano a camminare. Il loro, piuttosto è un reciproco viandare che allontana il gesto compositivo sia dal solipsismo romantico (per cui l’autore cerca per sé prima e poi per l’altro), sia da quello novecentesco che si smarrisce tra le rovine.
Qui la parola non afferma e, quindi, non divide. Semmai si ferma e poi si pone in cerca della mano dell’altro che sia capace di dare un po’ di senso al troppo buio. Con la consapevolezza che non è nella mano che vive il senso, ma nello stringersi reciproco che punge, certo, ma non smette mai di scaldare.
Qui c’è poco spazio per l’Io (che pure non è bandito!) e quindi si distrugge poco, ma si cerca, invece, il Noi col desiderio di costruire.
Il risultato non è anonimo, ma collettivo. Come per le maestranze che nel medioevo tiravano su chiese ben sapendo che il dialogo col divino si sarebbe poi costruito nel silenzio delle navate. Ed è questa, in fondo, la tenace pazienza delle cattedrali.