Esordire con un dramma da camera su una crisi spirituale richiede coraggio e forse anche una certa dose di incoscienza perché il contrasto tra carne e spirito, tra dubbio e fede ha bisogno di uno spazio tutto suo che spesso è precluso all’occhio solo fenomenologico della macchina da presa.E per quanto si cerchi una dimensione originale e uno sguardo personale, si ha comunque a che fare, trattando questi temi, con la luce del tramonto che allunga le ombre di Bergman o Dreyer verso quei piedi che magari avevamo messo a seguire tutt’altri orizzonti.
Non ci indurre in tentazione, in fondo, è questo: un film che vuole pensare nuovo, ma che si riempie ad ogni passo di echi e suggestioni antiche ingombranti come macigni a delimitare ogni percorso possibile. Oppure anche è un film antico che non può chiudere i propri conti col presente che preme sulla porta.
L’una cosa non esclude l’altra, anzi ci convive in un’opera che elegge il doppio speculare come punto di fuga della prospettiva dello sguardo.
Il film, pensato piccolo per scelta estetica e non per star dietro semplicemente ad esiguità di budget, segue passo passo un personaggio attanagliato dal dubbio.
Il racconto, se di racconto si può propriamente parlare per un’opera che respira tutta nelle pause, sta tutto qui, in quest’attesa di un’epifania che si spinge oltre i limiti del silenzio di ogni dio.
Lui se ne sta chiuso in casa sua, nel reticolo di una quotidianità spiccia, ciondolando tra il caffè della prima colazione e il divano di un’attesa senza nome. Diviso tra due diverse tentazioni: quella della contemplazione e quella dell’Ego. E nell’oscillazione tra l’una e l’altra parte di una decisione difficile da prendere, il suo lato nascosto prende forma in un doppio diabolico che dallo specchio gli fa boccacce e smorfie come un mostro d’altri tempi.
La suggestione ha radici antiche. Addirittura medioevali. Che confinano senza banalizzazioni con un horror asciutto, privo di orpelli ed effettacci, ma sempre ad un passo da ricordi pittorici e simbologie iconografiche che denotano sapienza e una certa sintonia con il presente dubitoso che abbiamo intorno.
Sicché il dramma da camera finisce per essere un quasi horror non per scelta a tutto campo di genere (come spesso accade in troppe opere d’esordio), ma per bisogno tematico. La propensione sta nel narrato e non precede, quindi, lo sguardo dell’autore, ma anzi arriva dopo, con una strana reticenza che ce lo rende intrigante e di difficile definizione.
Non ci indurre in tentazione, per tutti questi motivi, cammina su due gambe sole: la fotografia che tutto chiude in quadro e la bravura dell’interprete che quel quadro lo deve aprire ad ogni passo per dirci l’oltre dei suoi dubbi, del suo dolore, del suo essere persona e pirandelliana creatura.
Entrambe le gambe sono robuste e forti soprattutto nella prima parte così intessuta di silenzi e sguardi (molto bravo qui Lorenzo Berti). Gli inciampi arrivano purtroppo nella seconda, quando il doppio crudele esce dallo specchio per non tornarci più e il cambio di ritmo e registro è meno incisivo di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi. Quando, infatti, il conflitto esce dagli sguardi e si incarna nelle parole, si ha l’impressione che il tutto perda quota. Colpa probabilmente dei dialoghi che non hanno ali abbastanza ampie a tanta esigenza di volo.
Al di là di queste considerazioni, Non ci indurre in tentazione rappresenta comunque un tentativo importante di uscire dalle secche del sistema produttivo italiano.
(Non ci indurre in tentazione); Regia: N. Santi Amantini; sceneggiatura: N. Santi Amantini, Lorenzo Berti;fotografia: N. Santi Amantini; montaggio: Lorenzo Lombardi; interpreti: Lorenzo Berti; produzione: La Marina Pictures; distribuzione: Whiterose Pictures; origine: Italia, 2013; durata: 77’