Leggenda narra che un giorno, durante la pre-produzione di un film sulla Bibbia, Dino De Laurentiis si trovasse sul set con Robert Bresson.
Con sommo stupore, affacciandosi alla finestra, il noto produttore italiano vide passare enormi gabbie che contenevano coppie di animali. Dapprima leoni, poi giraffe, quindi ippopotami: di ciascuno un maschio e una femmina. Avviati tutti verso un’ipotetica arca cinema.
De Laurentiis, gongolante, sfregandosi le mani, si accostò al sommo regista francese e disse: «Finalmente, Maestro, pare che io sia riuscito a farle realizzare un kolossal!».
Al che Bresson, avvicinandosi all’orecchio del produttore, rispose in un sussurro: «Se ne vedranno solo le orme sulla sabbia».
Di questo film su Noè, inutile dirlo, non se ne fece più nulla. Passò nelle mani di John Huston che della storia del diluvio fece un gustoso episodio di alleggerimento, a tinte ironiche addirittura, tra l’omicidio di Caino e la Torre di Babele per il suo The Bible.
Oggi, a tanti anni di distanza da un leggenda che probabilmente vera non è, Aronofsky, fedele alla promessa di Bresson (autore a lui tanto distante) degli animali dell’arca non ci fa vedere neanche le impronte. La loro presenza nel film non è neanche indiziale: è ridotta a puro simulacro.
Di più: saliti sull’arca, questi animali di sogno, creati dai maghi degli effetti speciali, vengono immediatamente fatti addormentare e restano in scena come brandelli di sonno, come residui di un altrove che resta fuori scena.
Li vediamo sull’arca, eppure, anche vedendoli, ci sono e non ci sono.
Loro sono il perché di tutto il film, ma per sommo sfregio del desiderio voyeuristico dello spettatore, la loro essenza è oltre il tempo della rappresentazione. Non c’è sul set, ma non c’è davvero neanche sullo schermo. Nel recitare gli attori parlavano all’aria e per noi non vanno oltre un’essenza di luce colorata.
La loro innocenza assoluta, incontaminata, memore delle bellezze dell’Eden, quando l’uomo era ancora luce, prima che il fango del peccato della consapevolezza ne lordasse l’essenza imprigionandola nella polvere, non può stare sul set, ma non trova posto neanche sullo schermo. Lì loro dormono e qui noi li sogniamo.
In questo modo la scelta etica di non usare animali veri per realizzare il film, scivola inesorabilmente nell’estetica e la sovraccarica di senso. Quello che vediamo è lì per dirci che non c’è. E la sua assenza è un’accusa nei confronti di noi spettatori. Perché quella presenza assente, inerme, immobile, fiduciosa nel suo sonno privo di sogno (e quindi di incubo) ci fa da specchio. Loro sono tutto quello che noi non siamo. La loro innocenza è un indice puntato sulla nostra mostruosità. Noè lo vede e, appena lo capisce, sogna il genocidio, la fine della razza umana. Nel loro sonno senza sogni si palesa il nostro essere una veglia da incubo.
Il film diventa quindi un’arca alla rovescia e in questa sua Menzogna trova tutta la sua Verità. Se l’arca biblica raccoglieva animali, per l’arca cinema l’unica salvezza sta nel non raccoglierli. In questo il film si fa carico di una responsabilità e proprio in questo sta la sua grandiosità.
Il cinema di Aronofsky è tutto la storia di una presa di responsabilità. Dal rapporto padre figlia di The wresteler al confronto con la morte della persona amata di The fountain, ogni pellicola di questo regista tanto amato e spesso tanto odiato è sempre legato allo scendere a patti con un obbligo. Siamo al mondo e questo comporta una responsabilità. Una responsabilità verso ciò che ci circonda e anche una responsabilità verso le nostre stesse radici, fondamenta necessarie a ogni possibile futuro. Una responsabilità che dobbiamo capire, decriptare dai segnali sparsi di un universo più o meno indifferente che sta a noi riempire di Senso.
Nella logica laica (ma quanto sacrale!) del regista, il Creatore si fa, certo, portatore del diluvio, ma lascia il destino della razza umana nelle mani solo di Noè. Sta a lui la scelta tra vita e morte, tra Senso e Non Senso, tra odio e amore. Paradossalmente nel film ha sempre avuto ragione Tubal-cain, il re figlio della stirpe di Caino: è l’uomo, alla fine, che decide. Ma la decisione segna l’assunzione di un obbligo, coinvolge la totalità e non il singolo, non è mai “solo per se stesso”. E questo è un passo talmente importante e metaconsapevole che il regista lo mette in bella mostra a inizio e fine film a costruire nella narrazione un tempo ciclico che neanche il diluvio riesce a spezzare.
L’aver dimenticato oggi il nostro obbligo ci fa, quindi, tutti figli della stirpe di Caino. Ci marchia di una colpa che è solo nostra, che nasce dal rifiuto di vedere quando è ancora possibile farlo. Perché, per restare in tema di metafora, chi riempirà queste scene quando di animali non ce ne saranno davvero più? Cosa resterà del loro sonno innocente?
Noah è quindi un film definitivo dalla stranissima struttura. Si inerpica fino al diluvio quasi fosse un unico gigantesco prologo e poi si chiude nell’arca, attaccandosi a personaggi resi portentosi dal tanto buio che fuori infuria. Qui, grazie alla bravura di ogni singolo interprete, Aronofsky impagina forse il suo momento di cinema più alto e lascia aperto in ultimo, un disperato barlume di speranza: che finalmente noi si impari per davvero un po’ di gentilezza.
(Noah); Regia: Darren Aronofsky; sceneggiatura: Darren Aronofsky, John Logan; fotografia: Matthew Libatique;montaggio: Andrew Weisblum; musica: Clint Mansell; interpreti: Russell Crowe, Emma Watson, Jennifer Connelly, Logan Lerman, Ray Winstone, Douglas Booth, Anthony Hopkins, Kevin Durand, Sami Gayle, Marton Csokas, Dakota Goyo, Barry Sloane, Nick Nolte, Mark Margolis, Frank Langella, Don Harvey, Sophie Nyweide;produzione: Disruption Entertainment, New Regency Pictures, Protozoa Pictures; distribuzione: Universal Pictures; durata: 132’; origine: USA, 2014; webinfo: Sito italiano