Al cinema ci era arrivato dalla porta di servizio, come cascatore e stuntman.
Corpo atletico, viso nobile e occhi limpidi, si era affacciato al mito con l’aria di chi si mette a servizio con modestia e senza troppe pretese.
E, se intorno a lui tanti, troppi divi reclamavano rumorosamente un posto al sole, a lui sembrava andasse meglio l’ombra e che ci stesse quasi comodo.
Zitto e quieto si era messo senza troppe discussioni a costruire le illusioni insieme ai fabbri e alle maestranze, portandosi appresso la consapevolezza che il lavoro del cinema, che sembra tutto immagine e gioco di luci, in realtà è fatica di quelle che, a starci dentro, reclamano ben più delle proverbiali sette camicie.
Così si è fatto le ossa tra le comparse, a lasciare il suo segno tra le scene piccole di pellicole spesso grandi. Come Ben Hur che metteva sfondi e nomi italiani ad un mito che più che latino parlava americano. Film, questo, che gli fece da trampolino per i Titani di Tessari e per quel cinema dei calzari di cuoio che ha fatto scuola a Hollywood sin dai tempi della sua fondazione e che proprio col film di Wyler bruciava di tramonto.
Questo parlare americano, o comunque straniero è stata la costante della carriera di Giuliano Gemma. Solo che l’ha ribaltata nello specchio del cinema di genere.
Così, dopo essere stato un centurione in un film statunitense ha fatto poi il cowboy in film italiani in un perfetto percorso di andata e ritorno con scalo in Spagna in cerca di fondali.
Lo spaghetti western è sempre stato croce e delizia degli attori e degli autori che vi si sono cimentati. Delizia perché li hanno resi riconoscibili e popolari anche a decenni di distanza. Croce perché li ha impelagati nelle dinamiche di un cinema alimentare che è divertente quanto vuoi, ma anche per questo lo si guarda sempre con un po’ di puzza sotto il naso.
In questo modo Giuliano Gemma, diventato Ringo in pellicole d’altri tempi, pieni di graffi e bruciature tarantiniane, ha finito per far parlare di sé più all’estero che in Italia.
Eppure malgrado la sua carriera fosse intrisa di una maniera che ammiccava ai vari divi western (ma il modello fu sempre Errol Flynn e il cappa e spada) non rimase estraneo al così detto cinema d’autore in una serie di incontri che culminarono ne Il deserto dei Tartaridi Valerio Zurlini, che gli valse addirittura un David di Donatello. Ma, dopo essere stato addirittura sul set de Il Gattopardo per un ruolo piccolo, ma di quelli che ti restano negli occhi, lavorò con Squitieri (Il prefetto di ferro), con Damiano Damiani (Un uomo in ginocchio) e con Mario Monicelli (Speriamo che sia femmina).
Dario Argento, infine, se lo cercò per Tenebre e gli diede un ruolo anche nel cinema più cupo di quegli anni di piombo che avevano reso proprio il suo western stranamente inattuale.
Oggi Giuliano Gemma se ne va. Improvvisamente. Per un incidente automobilistico. E la sua scomparsa si porta appresso tutti i coccodrilli che ogni lutto si porta dietro.
Eppure, uscendo dalla porta del cinema e della vita con la stessa modestia con cui era entrato, sembra volerci lasciare con la lezione più importante: che il cinema e la cultura sono un lavoro che si fa con coscienza e con riconoscenza; che il mestiere ha una sua dignità che sa farsi Arte quando il vento fa per bene tutto il suo giro.
Una lezione fondamentale in questo squarcio di millennio in cui il lavoro, specie nello spettacolo, è squalificato prima di tutto da chi lo fa e da chi dimentica che recitare è essere al servizio di un’idea che si insegue sempre col sudore sulla fronte.