Si è discusso molto circa gli ultimi venti minuti di A.I. di Spielberg. L’opinione pressoché unanime dei critici (ma anche del pubblico in certi casi) è che essi siano per lo più superflui e, in ogni caso, sicuramente fuori tono rispetto alle quasi due ore di distopia tragica che li precedono.
La tristissima prassi, che si è venuta a determinare già prima che l’opera fosse, di fatto, finita, di separare nel film tutto ciò che è kubrickiano da tutto ciò che è spielberghiano (come se si dividesse il grano dalla pula) ha fatto sì che questo finale venisse da più parti indicato come opera sicura del regista americano.
Si è anche proposto (strano, ma vero) di vedere il film chiudendo gli occhi non appena consumata la dissolvenza in nero sull’immagine di David che ripete ossessivamente alla marcescente fata turchina la sua straziante preghiera. E questo in rispetto al genio di Kubrick, come se l’autore di Incontri ravvicinati del terzo tipo o di Schindler’s list non avesse egualmente diritto ad un po’ di rispetto!
Ma per restare nel dibattito critico sorto intorno al film, proviamo ad immaginare, per un momento, che questo finale sia davvero solo spielberghiano. Per farlo dobbiamo, prima di tutto, dimenticare che la sequenza si apre con la prima vera e assolutamente riconoscibile citazione da Kubrick (i casi precedenti, già abbondantemente riportati, non sono citazioni vere e proprie, quanto piuttosto riproposizioni di stilemi kubrickiani in un nuovo contesto): ci riferiamo alle riprese aeree sulla terra invasa dai ghiacci. Una riproduzione letterale del viaggio di Bowman alla fine di 2001: odissea nello spazio. Anche lì, come nel film di Spielberg, gli alieni creavano intorno al personaggio principale (ancora una volta unico sopravvissuto ad un’odissea) un ambiente riconoscibile entro cui vederlo agire. In 2001 l’intervento alieno si risolveva nella nuova e finale apparizione del monolito nero che spingeva David (stesso nome) a quella che era la finale evoluzione (da Uomo a Superuomo) della specie umana.
In A.I. gli alieni appaiono in prima persona, fisicamente. È vero che essi sono assolutamente simili a quelli di Incontri ravvicinati del terzo tipo, al punto da farci parlare di autocitazione ma, se così stanno le cose, che fine hanno fatto le luci mistiche e veramente consolatorie di quel film?
L’intervento degli alieni, a prima vista, non fa che creare un clima favolistico tipicamente spielberghiano. Ma essi, pur mantenendo una sicura funzione da deus ex machina, sono alquanto carenti in quanto a magie e prodigi. Non possono, infatti, avverare quello che è l’unico desiderio del piccolo robot: diventare un bambino per essere, così, amato dalla madre.
L’unica cosa che possono fare è riportare in vita, per un solo giorno, la donna donando al piccolo l’unico giorno felice della sua triste esistenza.
Visto in quest’ottica il finale appare decisamente consolatorio, ma proviamo a guardare meglio, proviamo a cercare di capire.
L’unica molla che muove per tutto il film il bambino (e in questo l’androide è decisamente tale) è il desiderio di essere accettato ed amato. Un desiderio assolutamente egotico che scambia, come di consueto nei bambini, l’idea di amare con l’esigenza di essere amati, curati per sempre. Questa esigenza, urtando con la verità vera della vita (il tempo passa, le persone cambiano e, alla fine, muoiono) porta il bambino verso un vero e proprio vicolo cieco mentale. Il primo finale ci raffigura esattamente questo: un’azione tragicamente ripetitiva, ossessiva ed eterna. La fine che avrebbe fatto Hal 9000, se nessuno fosse intervenuto a fermarlo in 2001.
L’azione degli alieni, in effetti, nel non esaudire il desiderio di David, è quella di portare il protagonista a trovarne uno nuovo che possa dare un senso alla sua esistenza. Si risolve, in effetti, in un obbligo a scendere a compromessi con la realtà. Insomma, un passagio (molto spielbeghiano è vero, c’è persino in Jurassic park) dal mondo della fiaba a quello della vita, dall’infanzia al mondo adulto.
Nelle ultime sequenze David impara, di fatto, a chiedere alla propria madre di essere amato non in quanto bambino, ma in quanto inerme individuo che è dovuto scendere a patti con l’evidente realtà che la sua sofferenza e il suo amore non sono così unici ed egocentrati come aveva creduto (l’incontro in laboratorio con gli altri David). Ma, soprattutto, impara ad amare e ad accettare la fine stessa dell’amore che è veramente eterno proprio perché muore, come tutte le cose. Il vero strazio, nel finale, sta nella consapevolezza tutta adulta con cui l’Uomo (e non più il bambino) rimbocca le coperte alla madre conducendola verso la morte. Senza che nessuno gli dicesse che era arrivato il momento, sottolinea la voce fuori campo.
Se 2001 era l’epico passaggio dell’Uomo verso lo stadio di Superuomo, A.I. è la toccante storia del passaggio doloroso da Infanzia a Mondo Adulto. È vero, Spielberg lo fa attraverso la favola (e non senza qualche salto di tono), ma per tornare, come sempre in tutti i suoi film, nelle contraddizioni spesso dolorose, della Realtà.