Un cieco, per avere il senso dell’orizzonte, non può far altro che allargare le braccia e tendere le mani al nulla. Quello che non vede lo deve, infatti, mettere nel vuoto che va oltre le braccia, al di là della punta delle dita.
In questo modo il suo infinito è appena oltre lo spazio di un abbraccio e il suo mondo si chiude nell’unica certezza che gli preme sulla pelle.
Tutto intorno resta solo il vuoto buio dell’assenza di ogni forma.
Patres, che mette al centro della scena un ragazzo cieco affamato di orizzonte, ha un primo grandissimo pregio nella sua capacità di mettere questa condizione del non vedere a un passo dallo spettatore. Chi guarda lo spettacolo si accorge troppo tardi che il suo vedere è, in realtà, un inciampo nella comprensione giacché non aiuta in alcun modo a sentire. E non perché Patres sia uno di quegli spettacoli che sarebbe meglio vedere con gli occhi chiusi, ma perché quel che vediamo è in realtà, ad ogni passo, un indice puntato proprio verso ciò che non vediamo. Ed è lì la sua vera essenza e la ragione della sua poesia arcana.
In un certo senso lo spettacolo ci rende tutti ciechi perché ci fa sentire sulla pelle e negli occhi tutto il vuoto che si stende oltre lo spazio vitale e chiuso del nostro abbraccio. Paradossalmente ci rende ciechi facendoci vedere e, quanto più forte si fa la luce che illumina la scena, tanto meno noi siamo in grado di guardare.
Scelta efficace visto che al centro del discorso di Patres non c’è tanto un discorso, quanto, piuttosto, un’assenza.
Il testo, quasi cantato nel suo dialetto antico come una tragedia greca, racconta di una perdita il cui dolore si rinnova ogni giorno.
Un ragazzo, non vedente, novello Telemaco, aspetta il ritorno del padre fuggito da casa tanto tempo prima. Uscito, così disse, a comprare le sigarette, il genitore si è volatilizzato lasciando il figlio solo col suo handicap dato che la madre è morta da tempo, portata via dai tumori spinti a riva da un mare pieno di rifiuti tossici.
Il ragazzo aspetta aprendo le braccia all’orizzonte in cerca solo dell’abbraccio di un padre che possa arrivare a riempirgli quel suo mondo svuotato di ogni senso. Ma quelle braccia aperte si riempiono solo della brezza della sera che non consola mai abbastanza.
L’attesa, tempo teatrale per eccellenza, è così piena di un senso inenarrabile di vuoto. E in quel vuoto il pubblico è chiamato a riconoscersi perché è anche il suo. È il vuoto di una nuova mancanza di valori. È il vuoto dell’assenza dei padri in una realtà, come quella italiana, che ci ha fatto tutti figli senza futuro perché nessuno ha voluto, da un certo punto in poi, farsi carico della paura di tenere la rotta. È la mancanza di punti di riferimento non solo familiari, ma sociali e culturali. È la perdita, tra tutti i valori, del più importante: quello del darsi all’altro nel tentativo di riempire quel vuoto che gli si è aperto tra le braccia e che rischia ad ogni passo di inghiottirlo.
Così Telemaco aspetta, cocciuto, perché è l’unica cosa che gli è stata insegnata per davvero ed è l’unico modo che gli resta, per reagire a quel vuoto che ha intorno e di cui noi siamo, volenti o nolenti, parte integrante.
Il suo cordone ombelicale, metaforicamente rappresentato da una fune che gli lega la caviglia, non trova origine nello spazio della messa in scena, ma nel tempo nero dell’attesa. Vola verso il buio del graticcio, oltre i panni stesi del ricordo, nel non detto del racconto e nel non esperito delle motivazioni degli attori.
È probabilmente questa la più brillante delle soluzioni di regia.
Per tutti questi motivi Patres è uno spettacolo sfaccettato ed energico. Ma di un’energia compressa, sofferta, lacerata. Più che un’esplosione, mette in scena un’implosione che si congela in quella presa di fiato che sta prima del grido.
Se difetti ci sono in Patres essi non sono nell’impostazione, ma nei dettagli. Ad esempio in quel filo di panni stesi al sole che dovrebbe starsene al buio con il padre e, invece, entra in scena già all’inizio, con quel figlio che ancora non abbiamo conosciuto. Oppure nella barchetta giocattolo e veicolo di ricordi che avrebbe bisogno di un uso scenico di più ampie dimensioni per adattarsi a tutti i palcoscenici.
In verità si ha l’impressione che Patres trovi il suo ambiente ideale nei piccoli teatri, negli spazi in cui è più sottile la quarta parete e in cui il pubblico più facilmente è risucchiato nel notevole lavoro degli attori. Il che non è un difetto, ma la cifra distintiva di uno spettacolo che si rivolge ai singoli più che alle platee e che cerca il coinvolgimento delle persone più che di un generico pubblico. È in questa dimensione, infatti, che meglio si apprezza la precisione millimetrica della regia e la grande bravura di tutti e due gli attori. E ci preme qui precisare che Gianluca Vetromilo, splendido Telemaco, è bravo non perché accetti la sfida di quasi un’ora di scena ad occhi chiusi, ma perché capace di far sentire la poca distanza dal ragazzo dell’inizio al bambino del ricordo.