Pinocchio

Guardate per un momento il mare. La sua poesia non è il colore che gli regala il cielo, diverso ad ogni ora del giorno e a ogni stagione. Né nell’insondabile mistero della sua profondità che fa da specchio alle nostre ansie, alle nostre paure e ai nostri sogni più riposti. No! La poesia del mare, ce lo insegnava già Debussy con la sua musica acquea, non è in queste cose. O, perlomeno, non è solo in queste cose.
Piuttosto la poesia del mare è nelle onde che portano a riva quella tavolozza di colori freschi di brezza, a bagnarci i piedi. O nei cavalloni che regalano un’impressione di vita a quella che altrimenti sarebbe solo acqua e qualche grano di sale.
La poesia è tutta nel respiro e nel movimento, nel continuo cangiare di una forma che cerca se stessa e, sublime, non si trova mai.

Ecco! Guardare Pinocchio del Teatro del Drago è come mettersi su uno scoglio a guardare il mare che gioca. E non perché già nel racconto di Collodi si parlava di onde e pescecani, ma perché è il principio della messa in scena tutto ad essere fluido come uno spasso di onde che si infrangono su occhi assetati. 
La storia di Pinocchio non è, come sarebbe lecito aspettarsi in uno spettacolo che resta comunque anche per bambini, la barchetta che naviga sul mare delle nostre aspettative, ma l’oceano stesso, meraviglioso e insondabile. Essa è fatta fluttuare da una parte all’altra del palcoscenico, si muove e cangia ad ogni passo forma e consistenza. Passa dai pupazzi alle marionette, dagli attori in carne ed ossa alle ombre proiettate, senza mai fermarsi, senza mai trovare una qualche forma di approdo che ci rassicuri da tanta impressione di sogno.
Allo stesso modo i personaggi perdono ogni consistenza e si fanno materia di incanto che trascolora ad ogni passo come le fatine argentate della fantasia del Sogno di Shakespeare. Non li trovi negli attori, nelle maschere, nelle marionette, ma tra di loro, in uno spazio vuoto e ambiguo sempre sul punto di riempirsi di forma mentre si svuota di sostanza.

Per personaggi così ad un passo dal nulla, in continua metamorfosi, anche la parola sarebbe un’àncora troppo solida a grattare il fondo del mare. Ed ecco che Pinocchio riscopre il gramelot, la lingua di tutti e di nessuno, il suono che si riempie di senso non attraverso l’astrazione del linguaggio, ma con l’effusione del sentimento e il ricordo dell’onomatopea. Se, però, ai tempi della commedia dell’arte il gramelot avevo lo scopo pratico di superare le barriere linguistiche che la cultura aveva frapposto tra un dialetto e l’altro, qui esso è pura suggestione musicale, incrocio di strumenti da segnare in partitura coi piani e i pianissimi di cui ogni favola ha bisogno per meglio avvicinarsi al sonno.

Pinocchio è uno spettacolo straordinariamente musicale non tanto perché è scritto per orchestra in ogni suo quadro e in ogni sua scena, ma perché è musicale il suo modo di raccontare, il suo essere per il pubblico e con il pubblico. In esso gli attori danzano coi piedi di qualche spanna appena sopra il suolo, sfidando il peso della gravità coi panneggi bianchi di una scena settecentesca.

Perché, non ultimo, Pinocchio è uno spettacolo di storia. Nuovo perché frutto coerente di una tradizione che si sente in ogni dettaglio piccolo: nel volto rugoso dei pupazzi che sembrano di legno come nel tulle che fa tanto fata turchina. La bellezza di Pinocchio è nella sua pulita raffinatezza che è frutto di un lavoro manuale tramandato di generazione in generazione. Parla un linguaggio contemporaneo usando vocaboli desueti. Come il neoclassicismo stravinskiano.

I bambini possono scavarci dentro un loro personale ricordo di fiaba, ma per gli adulti questo è Teatro vero. E puro.

PINOCCHIO
dalle tavole originali di Alain Letort
colorate da Gianni Plazzi 
pupazzi di Mauro Monticelli 
musiche originali di Claudio Capucci e Morrigan’s Wake
ideazione, allestimento e messinscena TEATRO DEL DRAGO

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