Garage

Il garage è un luogo sociale dallo statuto ambiguo: né dentro, né fuori; né veramente chiuso, ma neanche realmente aperto.
Non è una cantina, che normalmente è il luogo in cui si ripongono le vestigia del passato e gli oggetti un tempo d’uso quotidiano, ma che ora hanno perso ogni significato. Ma neanche è uno spazio abitativo puro e semplice.
Somiglia a un monolocale, ma non lo puoi abitare, non ci vivi dentro anche se magari ci accatasti una vecchia cucina e dentro c’è l’acqua corrente e l’elettricità.
Insomma è proprietà privata, ma se dimentichi la saracinesca aperta non è un gran danno perché non è davvero casa tua.
Al tempo stesso il garage è anche anfratto buio, chiuso.
La sua natura liminale lo rende spazio adatto per l’illecito perché protegge dagli sguardi degli altri e all’occorrenza si riempie di angoli di buio. Attraversabile da tutti, raccoglie solo colpe collettive senza indicare un unico responsabile perché che colpa ne ha un proprietario se dentro c’è entrato senza permesso qualcuno che ha rubato, stuprato o, addirittura ammazzato?
Così il garage è rappresentazione ideale di un’Italia di tutti e di nessuno, un’Italia in cui la responsabilità è collettiva e, quindi, di qualcun altro, un’Italia che quando può fa scarica barile e quando no chiude le prove in quel garage che, appunto, non sente troppo come casa sua.

Garage magnifica sin dal titolo questo spazio sociale che è specchio di una situazione culturale.
In un garage dalla porta rotta, nascosto dall’angolo del palazzo che lo ospita, cinque ragazzi, tutti minorenni, si portano una ragazza di origini egiziane e, forse, la violentano. Qualche giorno dopo il fatto, le famiglie si riuniscono proprio a un passo da quel luogo per decidere il da farsi.
Un processo prima del processo, insomma, davanti a un avvocato che si vuole consulente, montato al solo scopo di accertare la verità, ma non per spirito di giustizia, bensì per decidere tutti insieme con quali colori presentare i fatti, quale linea comune di condotta adottare e quale dei tanti sguardi possibili sul vero debba prevalere.
Della ragazza violentata non importa niente a nessuno, della sua femminilità tradita e vilipesa si fa presto carta su cui scrivere un’altra storia che minimizzi le colpe, che ridistribuisca i torti. Perché si fa anche troppo presto a dire che non è stata violentata, ma si è fatta violentare, che addosso si porta la sua parte di colpa che le sta come i vestiti troppo succinti e troppo aderenti coi quali già diceva sì alle voglie di ragazzini in piena tempesta ormonale.
Così i genitori cercano la strada del compromesso, il percorso facile della mano verso il portafogli col quale non si lavano le colpe, ma si comprano i silenzi.
Il tutto reso più facile dal fatto che la ragazza egiziana in Italia c’è e non c’è come la di lei madre che, in quel condominio, ci lavora e non ci lavora.
Tutto a nero, tutto nascosto, tutto in garage, appunto, in quello spazio che tutti sanno, ma in cui nessuno va a guardare. Privato e collettivo. Sintesi perfetta di un’Italia dove l’illecito è la norma per districarsi nella selve di leggi che nessuno conosce e, quindi, nessuno rispetta.

Da questa messe di idee si compone, puntino dopo puntino, il ritratto di un paese, il nostro, per cui le regole sono solo puntelli d’apparenza, un trucco da indossare per darci un tono, un segno da mettere su labbra e occhi come un fondotinta di presunta presentabilità.
Quello che mette la Signora Sossi, con uno specchietto, quando chiede al Dottore perché continui a farsi tante domande quando quel che serve è solo un’uscita di sicurezza tanto facile da aprire in un muro di vergogna.
Fatto sta che il dottore queste domande viene a farsele in mezzo al pubblico, dopo aver scavalcato la quarta parete col passo tristo di un grillo parlante che invoca la sintonia di un’immedesimazione così terribilmente troppo facile. Sono, così, le nostre domande che trovano la voce del personaggio seduto improvvisamente in mezzo a noi: cosa faremo al posto loro? Rinunceremo alla rispettabilità del nostro nome per un astratto ideale di giustizia? Denunceremo i nostri stessi figli sapendo che il crimine compiuto non è comunque risarcibile e che la dignità a quella ragazza violentata non possiamo comunque restituirla?
La scelta facile diventa allora quella di violentare la ragazza egiziana una seconda volta. Non nel corpo, ma coi soldi. Lo chiamiamo risarcimento, ma è solo il prezzo scritto sul cartellino di una bocca da tenere chiusa una volta di più.

Così lo spettacolo, che ci fa da specchio, allarga l’inquadratura e ci mostra, dietro a noi che ci trucchiamo, un altro mondo diverso eppure uguale, quel terzo mondo da cui ci piacerebbe sentirci distanti, ma che invece è a due passi, a nostra immagine come un’ombra antica. Perché anche lì una violenza carnale si paga, ma con il sangue, quello della vittima, quello della ragazza violentata che è sempre colpevole anche quando non ha fatto niente.
Da che il mondo è mondo il potere, ci si dice, si è sempre fondato sul delitto o sulla corruzione e la sostanza cambia poco nel gioco delle parti in cui vince sempre chi riesce a togliersi di dosso gli scrupoli di coscienza.

Garage muove sulle linee di un realismo estremo ed esasperato. La definizione dei personaggi è minimale. Rifiuta la macchietta e cerca, invece, la strada dell’exemplum. Gli adulti sono le maschere delle loro professioni perché quelle hanno imparato, in tanti anni, a mostrare al mondo: il giudice, la professoressa, il medico.
Tutte sono espressioni di una classe sociale media, mostruosa borghesia chiusa nel suo eterno presente dal momento che, cancellando il suo stesso passato ad ogni passo, non ha, per questo, strade aperte verso alcun futuro.
Come Crono qui i padri divorano i loro stessi figli nell’inettitudine della più italica di tutte le arti: la deresponsabilizzazione. Che uccidano, stuprino o rubino che importa? Quel che conta è che imparino in fretta l’arte di coprire i fatti con una mano di cemento possibilmente abusivo. Il cinismo è il loro verbo e lo sputano come veleno di serpente se appena un poco gli pesti la coda.

Poi, però, con colpo di teatro inaspettato, questi figli, vittime a loro volto di un sistema troppo grande e troppo nero, alzano la testa e aprono nella pièce un barlume di speranza. E questo sprazzo di utopia apre crepe nelle aspettative degli spettatori che non sanno bene che pensare. Perché la speranza, in tanto squallore, ci fa sentire scomodi, ci mette con troppa evidenza a contatto col nostro esserci ormai abituati al peggio.

Garage brilla per più di un motivo. Intanto per la mano del drammaturgo, Marco Zannoni, che disegna dialoghi perfetti in geniale equilibrio sull’orrore quotidiano. Poi per la scenografia importante di Ivan Gordiano Borelli, un ponte ideale tra le ragioni dei personaggi e quelle degli attori e del regista, tra idea, scena e Reale. Infine brilla e non poco per gli attori.
Il cast di Garage è di quelli che, in un concorso, si premierebbe come ensemble non solo perché il testo non ammette protagonisti assoluti, ma perché la bravura di ciascuno è frutto di un lavoro collettivo. Segno, certo, di una regia solida che nulla lascia al caso e tutto inquadra, ma anche delle ragioni di un discorso di fondo che tutti sentono non solo sulla pelle.
Se proprio dovessimo, quindi, scegliere tra i volti qualcuno di cui parlare più diffusamente, ci butteremo tra i giovani che aprono nel testo una strada possibile più giusta. Ed ecco allora l’Edo di Claudio Fidia, spiacevole eppure indifeso nel suo essere tutte spine, o gli Andrea e Dario di Vincenzo Esposito e Gianluca Cangiano, più simili tra loro nell’obliquità di un’adolescenza ancora confusa di gioco.

GARAGE
di Marco Zannoni
con Gianluca D’Agostino, Lello Serao, Marcella Granito, Patrizia Di Martino, Alfonso Capuano, Gennaro Piccirillo, Annalisa Renzulli, Gianluca Cangiano, Vincenzo Esposito, Claudio Fidia, Cecilia Lupoli
scene Ivan Gordiano Borrelli
regia Lello Serao

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