L’uscita in sala, nel pieno della calura estiva e fuori dalla benedizione di ogni campionato o coppa, del film Il grande match ci invita ancora una volta a riflettere sul rapporto spesso difficile tra Cinema e Calcio.
In un’ideale classifica che volesse premiare lo sport che più spesso è apparso al cinema, a vincere, sarebbe, infatti, e senza nessuna sorpresa, il baseball. Alla boxe spetterebbe di diritto una brillante medaglia d’argento conquistata a suon di storie di riscatto personale e di crescita interiore, mentre il calcio si dovrebbe accontentare della sola terza posizione con un novero di pellicole che, messe a confronto con i ben più compatti risultati cinematografici delle capolista, appare incredibilmente eterogeneo, sfrangiato e sfuggente.
Il fatto è che il cinema americano (che nelle logiche sportive ha sempre scoperto un veicolo ideale per raccontare in altri modi la sua ossessione di sempre: l’american dream) non ha mai dimostrato un particolare interesse nei confronti del calcio. Detta in altri termini, Hollywood non è mai riuscita a fare dello sport più popolare in Italia una possibile metafora esistenziale in grado di commuovere quel pubblico vastissimo e variegato cui si è da sempre rivolta.
Il calcio non è come il baseball dove a contare prima di tutto è il rinnovarsi della sfida tra un lanciatore e un battitore. Né è come la boxe dove l’espressione codificata della violenza riesce a sciogliersi di fronte alla statura gigantesca, spesso tragica, comunque altamente spettacolare dei personaggi messi in scena. Non è neanche come il golf (che nella classifica stilata dalla FICTS al centenario della nascita del cinema occupa addirittura il venticinquesimo posto) dove a contare, nel silenzio complessivo del green, è la sfida del giocatore con se stesso in un processo che è prima di tutto di autocoscienza.
Semmai può somigliare vagamente al football americano e, ancor più alla lontana, al basket (rispettivamente settimo e quindicesimo nella classifica), ma del primo al calcio manca la brutalità irreggimentata nella formula di schemi granitici mentre non ha il romantico momento dell’elevazione del cestista verso il canestro, la sfida inesausta alla forza di gravità del secondo.
Il calcio è piuttosto un “lavoro” di squadra che, ancor peggio, si gioca “coi piedi”: l’esatto contrario del pragmatismo americano del self made man dove tutto passa nel triangolo cuore-mente-mani. Anche la sfida finale tra l’attaccante e il portiere è solo una “parte” del gioco. Spesso neanche la più interessante. E, probabilmente, il momento in cui il calcio finisce per somigliare di più al baseball non è nella partita vera e propria, ma negli estremi momenti dello spareggio, quando, esauriti anche i tempi supplementari, non restano che i rigori a decretare, in un incontro sin qui equilibratissimo, un vincitore. Ma è un momento, questo, che gli stessi tifosi non amano troppo perché, pur nella massa di adrenalina che mette in moto, ha troppo il sapore di un meccanismo artefatto, imposto alla partita dall’esterno come un deus ex machina che deve chiudere i conti quadrando un cerchio in un modo che non può non essere ingiusto. Perché a vincere ai rigori non è tanto la bravura di un attaccante o l’abilità di un portiere che, wendersianamente, diventa invisibile per il pubblico tutto concentrato sul solo calciatore che esegue il tiro. No! A vincere ai rigori è piuttosto, il caso, il capriccio del momento, quel secondo di indecisione, quella frazione di secondo che scaglia la palla in una direzione invece che in un’altra e che, nel suo sapore inconscio, va oltre ogni possibilità di previsione.
Ed è, probabilmente, proprio la dimensione “casuale” delle partite di calcio a non piacere tanto all’industria hollywoodiana. Le partite di calcio sono sempre imperscrutabilmente imprevedibili. Ci può essere una partita avvincente tra due squadre di quartiere ed una partita noiosissima tra due contendenti alla Coppa del Mondo. Anche a girar documentari (è stato il caso di Zidane) si sfidano le sorti del destino perché, ad accendere le macchine da presa ti può capitare di beccarti la partita peggio giocata dal protagonista che ti sei scelto. Anche da un punto di vista visuale le cose non vanno meglio perché il calcio, con le sue due squadre che penetrano l’una nel territorio dell’altra, danno alla partita un che di confuso, incerto, squilibrato e disarmonico. Non si saprebbe mai dove piazzar la macchina e a costruire a tavolino le azioni ne verrebbe fuori qualcosa di troppo artefatto.
E’ anche per questo che quello che si è consumato tra Cinema e Calcio è sempre stato una specie di matrimonio bianco, sempre incapace di produrre titoli di livello destinati davvero a restare nella storia. Il Film, da questo punto di vista, è sempre stato, nei confronti di questo sport, un po’ come il Fantozzi che cerca di vedere la partita e non ci riesce.
Per accostarsi al Calcio, il Cinema è spesso costretto a scambiare la “parte” per il “tutto”. Impossibilitato a raccontare lo sport, al cineasta non resta che concentrare la sua attenzione sul fenomeno di costume (come avviene in Ultimo minuto di Pupi Avati), oppure punta tutto sul fenomeno della tifoseria (Hooligans, ma anche Ultrà in Italia). Laddove vengono a mancare altri appigli, meglio alzare la posta in gioco ed ecco allora che si compete non per una Coppa, me per Onore e Libertà in Fuga per la Vittoria. Ed è niente più che la partita vista dalla finestra di Fantozzi.
Il problema è che se è vero che il Cinema è la sublimazione della vita, la riduzione dell’esistenza tutta in racconti perfettamente conchiusi, il Calcio è troppo simile alla Vita Vera, con la sua confusione, con la sua assoluta casualità per diventare davvero Buon Cinema. Può, semmai, passare per la televisione, ma anche questo passaggio è incompleto, imperfetto, insicuro: un altro matrimonio poco consumato.
Perché a guardare la telecronaca di un incontro non si può non restare colpiti dall’indifferenza che l’immagine ha nei confronti del suono. In TV si può decidere di guardare una partita senza ascoltare il cronista che la commenta, chiudendo completamente il canale del suono. E si può, per paradosso, decidere di ascoltare la partita senza vederla, nel qual caso quello che si avrebbe di fronte è, né più né meno che una mera radiocronaca. Immagine e Suono possono bellamente fare a meno l’una dell’altro. Scorrono paralleli in TV per un mero capriccio del caso e, nel far questo, sembrano volersi opporre all’intera storia di un cinema che ha sempre posto il suono a totale servizio di un’immagine. Il loro è un vero e proprio rapporto contrappuntistico: dicono le stesse cose in linguaggi diversi e, quindi, dicono cose diverse. Si illuminano l’un l’altra, ma a spegnerne una la quantità di luce nella stanza resta la stessa.
Ed è anche in questo paradosso (che a ben vedere riguarda quasi tutte le cronache sportive, ma che ha, nei confronti del calcio, un vieppiù di paradossale) che riposa uno dei motivi di interesse verso una disciplina così tanto refrattaria a farsi raccontare.
Il fatto è che il Calcio brucia nel momento stesso della sua esistenza (anche per questo si rivedono raramente le partite del passato, e ci si va, semmai a ripassare solo qualche grande azione). Poi è meglio che diventi un ricordo (e si mandino al rogo i vari processi televisivi che vampirizzano quell’attimo per farne carne da TV!).
Ci vorrebbe un pizzico di sapienza buddista per penetrare un po’ più a fondo in questo arcano. Ma con quel pizzico poi ci si dovrebbe anche accorgere che, come tutto, anche il cinema che tenta di fermare su pellicola la partita del momento, è destinato a “passare”.
Sta tutta qui l’inutilità dell’Arte, della critica che ad essa si rapporta e, quindi, anche di questo pezzo che avete appena finito di leggere